Bowie un anno dopo, l’ultimo videoclip per riempire il silenzio

Bowie un anno dopo, l’ultimo videoclip per riempire il silenzio
C’è chi quest’anno senza di lui l’ha passato, oltre che nel (ri)ascoltare tutti i suoi dischi e nel mandare «Blackstar» al primo posto nella...

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C’è chi quest’anno senza di lui l’ha passato, oltre che nel (ri)ascoltare tutti i suoi dischi e nel mandare «Blackstar» al primo posto nella classifica del vinile più venduto del 2016, nel tentativo di decrittare ogni simbologia nascosta nella grafica del suo ultimo album. Ogni macchiolina, ogni possibile rifrazione luminosa, persino i caratteri usati sono stati analizzati dai fans come fonti di messaggi segreti.


Un atteggiamento che testimonia come, tuttora perplesso e attonito al nunzio della sua morte, il mondo rock abbia provato a colmare il vuoto provocato dalla scomparsa di David Bowie il 10 gennaio scorso, appena due giorni dopo il suo sessantanovesimo compleanno e l’uscita, appunto, di «Blackstar», la stella nera di un rock che sapeva farsi ancora domanda, verbo della contemporaneità, avventura per mente e corpo. Un atteggiamento che si ritrova nei documentari che gli sono stati dedicati in questi giorni, nei libri, negli omaggi di ogni tipo in mezzo mondo.

Un atteggiamento che spinge a cercare nella vita stessa di David Robert Jones (così all’anagrafe) il completamento della sua arte sempre cangiante, sempre in prima linea, sempre elegante ma vitale nel contenuto almeno quanto nella forma, anzi nelle forme. «David Bowie: the last five years», il docufilm appena trasmesso dalla Bbc, ha scandagliato gli ultimi cinque anni della sua esistenza, raccontando come il rocker che cambiò il mondo della musica, e non solo, avesse appreso della gravità della sua malattia - il cancro gli era stato già diagnosticato da un anno e mezzo - tre mesi prima di morire, mentre girava «Lazarus», il suo ultimo videoclip: «Alla fine delle riprese», racconta il regista Johan Renck, «ha capito che tutto era finito».

Così, mentre il puzzle «Blackstar» viene ancora smontato e rimontato alla ricerca di significati celati in qualche dettaglio altrimenti insignificante, sembrerebbe smentita l’idea che sia il disco dell’addio consapevole, con quel clip che mostrava l’artista come un novello Lazzaro, appunto, con gli occhi completamente bendati e il corpo ricoperto di bottoni, idea peraltro di Renck e non del musicista che, per quanto cosciente di star morendo, ha pensato fino all’ultimo solo alla sua musica, in un combinato cesello di rock e jazz, fisicità e profondità intellettuale, domande (tante) e risposte (poche, ma ben ponderate).

Piuttosto che esplorare in stile Dan Brown l’ultimo repertorio bowiano, si ascolti l’ep appena uscito, «No plan», con le sue ultime registrazioni: la malinconia a cristalli liquidi della title track, accompagnata da un suggeastivo video di Tom Hingston che cita e aggiorna per l’ultima volta l’epopea di «The man who fell to earth», l’acid rock di «When I met you» ed il suono più complesso di «Killing a little time» vengono dalle sedute del musical «Lazarus», singolo incluso a completare il poker di brani, ma nel cd dello show erano passate quasi inosservate.


Intanto, per chi si fosse perso il concerto-memorial alla londinese Brixton Academy di Gary Oldman and friends o non potrà andare il 24 gennaio a vedere quello messo in piedi da Sting al Wiltern di Los Angeles, ci sono un paio di libri interessanti, a partire da «Bowie», del filosofo Simon Critchley, pubblicato dal Mulino. «Comincerò con una confessione piuttosto imbarazzante: nessuno, in tutta la mia vita, mi ha dato più piacere di David Bowie», spiega il docente alla New School for Social Research di New York, che si confessa folgorato dall’apparizione di David - siamo negli anni Settanta e lui ha 12 anni - a «Top of the Pops», la trasmissione musicale più popolare d’Inghilterra, sulle note di «Starman». Che l’ex Ziggy Stardust abbia influenzato l’intera cultura del Novecento, e non solo la sua colonna sonora, lo conferma anche «David Bowie in sei ritatti d’autore» (La Nave di Teseo, pagine 160, 17 euro), in cui quattro scrittori (Michael Cunningham, Michel Faber, James Grady, Rick Moody) più Franco Battiato e Carlo Verdone si misurano con la forza rivoluzionaria, il trasformismo, la capacità di reinventarsi del genio scomparso un anno fa. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino