Mostra del Cinema di Venezia, Gianfranco Rosi sulle orme di John Ford: «Viaggio al confine tra la vita e l'inferno»

Mostra del Cinema di Venezia, Gianfranco Rosi sulle orme di John Ford: «Viaggio al confine tra la vita e l'inferno»
VENEZIA - Di ritorno dagli Oscar che aveva sfiorato con «Fuocammare», Gianfranco Rosi racconta di essersi chiesto: e ora? Dopo Lampedusa e quel film premiato nel mondo...

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VENEZIA - Di ritorno dagli Oscar che aveva sfiorato con «Fuocammare», Gianfranco Rosi racconta di essersi chiesto: e ora? Dopo Lampedusa e quel film premiato nel mondo sul dramma dei migranti, dove avrebbe portato lo sguardo resistente della sua cinepresa? «Notturno», il film italiano più atteso della Mostra, è nato così, dall'impulso «di andare a vedere dall'altra parte», di navigare altri mari, di percorrere i confini dei paesi del Medio Oriente martoriati dalla guerra in «un viaggio tra la vita e l'inferno», cercando un'impossibile normalità nello sguardo dei bambini yazidi sopravvissuti ai massacri dell'Isis, nel dolore delle madri di figli torturati e barbaramente uccisi, nella rassegnazione dei prigionieri con la tuta arancione portati all'ora d'aria come carne da macello.


Siria, Iraq, Kurdistan, Libano: «Ho passato tre anni spostandomi tra un paese e l'altro per cercare un punto di vista e il filo di un racconto capace di legare storie di donne e uomini distanti solo sulla carta, ma uniti dalle stesse sofferenze», dice il regista. «Anni che mi hanno cambiato profondamente e che non riesco ancora ad elaborare. È stata un'esperienza emotiva e fisica molto forte passare tanto tempo in luoghi sconosciuti senza conoscerne le lingue, stare per mesi in luoghi pericolosi e sperduti, con l'eco della guerra sempre sullo sfondo. Questo film nasce dove finiscono le notizie, dalla necessità di raccontare qualcosa di più intimo e necessario».

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Girare, spostarsi, piazzare la macchina da presa e aspettare con la sola compagnia di un operatore. Sentirsi protetto dalla notte, inseguire la complicità della luce che trasforma lo spazio. «Ho cercato di unire il rigore del cinema con l'autorità del reale. E mi sono immaginato quel che vedevo proiettato sul grande schermo, più grande della vita, come nelle inquadrature di John Ford». Chiedersi il senso di una guerra che ha distrutto i confini e cancellato le bellezza di civiltà millenarie sotto i colpi di mortaio che ancora si sentono in lontananza, nelle terre di nessuno contese dai cecchini, dove basta un metro per trasformare l'amico di ieri in nemico di oggi. Confessare di essere partito con tante domande e di non aver trovato risposte: «Sono tornato più confuso di prima».

Ed è proprio una sensazione di «tempo sospeso» che «Notturno» vuole trasmettere a chi guarda, sottraendo la cognizione del dolore alla geografia dell'orrore, affidando ai piccoli gesti del quotidiano la desolazione di chi sente venir meno il futuro dovunque si trovi, in quella parte di mondo privata dell'identità e dei più elementari diritti, e ai notiziari passati in tv la scansione indifferente della cronaca. «Il film non spiega, non ci sono didascalie perché volevo che le storie dei personaggi fossero universali», continua il regista. In una delle scene più potenti i bambini yazidi sopravvissuti alla crudeltà dei miliziani dell'Isis raccontano aiutandosi con i disegni le atrocità cui hanno assistito: «Potevo non mostrare i loro volti? Me lo sono chiesto. Ma testimoniare l'orrore di un intero popolo è un atto dovuto. Una scelta necessaria. Sono stato in quell'orfanotrofio due mesi, la stanza dei disegni che mostro è come l'aula di Norimberga: la sede di un processo alla storia». Nel film si sentono i messaggi di una schiava dell'Isis che implora la madre di pagare il suo riscatto, si vedono i pazzi di un manicomio portare in scena il dramma della loro patria con una lucidità commovente. Che cosa resta, alla fine di questa esperienza, Rosi? «Un profondo senso di amore, un senso di vita in lotta in persone che hanno conosciuto le sofferenze più grandi».
 
Prodotto da Donatella Palermo e Rai Cinema, «Notturno» da oggi arriva anche in sala in un'ottantina di copie. E il regista, che ha già vinto un Leone d'oro con «Sacro Gra» nel 2013 e un Orso d'oro con «Fuocammare» nel 2017, si prepara a partecipare ai festival più importanti. Dopo Venezia, «che è un punto di arrivo fondamentale», lo hanno già invitato a New York, Toronto, Telluride, Londra e Tokyo, segno del grande interesse internazionale per il suo sguardo autoriale sul mondo. Come sette anni fa, ad accompagnarlo al Lido c'era la figlia Emma, al suo fianco anche sul red carpet. Tre anni ai confini della guerra: com'è stato tornare a casa? «Già tornare è stato un bel risultato, in un paio di casi ce la siamo vista brutta e una volta, nella zona delle paludi tra Iraq e Iran, abbiamo rischiato di essere rapiti». Al rientro in Italia, ha trovato il paese in quarantena, si è chiuso in casa e ha cominciato a montare ore e ore di girato: «Isolato, confinato, ho sentito su di me il senso di futuro sospeso vissuto dai miei personaggi».


Di Medio Oriente e della difficile convivenza tra palestinesi e israeliani parla anche «Laila in Haifa» di Amos Gitai, un veterano della Mostra, di nuovo in concorso. E il raffinato melò del Leone d'oro alla carriera Ann Hui, sull'educazione sentimentale di una ragazza divisa tra interesse e passione nella Hong Kong decadente e sontuosa degli anni Trenta, ha incantato tutti.  Leggi l'articolo completo su
Il Mattino