Francesco Rosi, i cento anni del maestro del cinema come verità

Cento anni fa, il 15 novembre del 1922, Francesco Rosi nasceva in piena Napoli, a via Montecalvario, nei Quartieri Spagnoli

Francesco Rosi, nato a Napoli il 15 novembre 1922
Cento anni fa, il 15 novembre del 1922, Francesco Rosi nasceva in piena Napoli, a via Montecalvario, nei Quartieri Spagnoli. Una ricorrenza che non risente della routine...

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Cento anni fa, il 15 novembre del 1922, Francesco Rosi nasceva in piena Napoli, a via Montecalvario, nei Quartieri Spagnoli. Una ricorrenza che non risente della routine cerimoniale perché la sua vita e le sue opere hanno goduto di un privilegio concesso a pochi tra i maestri del cinema: restare sempre collegate se non fisicamente, culturalmente e poeticamente alle proprie radici.

È fondamentale inserire nella congerie delle celebrazioni la posizione anticonformista assunta da Rosi nei confronti della napoletanità perché si può dire che niente di più appassionato e insieme antiretorico, più lirico e insieme razionale, più struggente e insieme meno nostalgico è ancora oggi a disposizione dei continuatori. Di fronte ai rigurgiti del patriottismo epidermico, reattivo solo quando occorre denunciare la denigrazione di cui è o sarebbe oggetto l'«immagine» della città, è dunque più che mai necessario tornare ai procedimenti rosiani e in particolare alle sue accorte e coraggiose integrazioni tra la sgargiante iconografia partenopea, l'irriducibilità del suo vitalismo e il thrilling con cui vi s'alternano glorie e misfatti.

Tra l'altro proprio nella produzione iniziale che comprende «La sfida» (1958), «I magliari» (1959) e «Le mani sulla città» (1963) e costituisce la scena primaria del suo sentire artistico, il distacco dal neorealismo è vissuto come un'inevitabile evoluzione che ne assorbe metodi e strategie trapiantandoli in una terra incognita, nel mare magnum di un immaginario cosmopolita e antiprovinciale.

Se i titoli successivi dagli incalzanti «Uomini contro» (1970) e «Il caso Mattei» (1972) al fantapolitico e visionario «Cadaveri eccellenti» (1976), dai meno riusciti «Cronaca di una morte annunciata» (1987) e «Dimenticare Palermo» (1990) alla pietas rievocativa di «La tregua» (1997) - hanno accresciuto la lista dei premi e guadagnato i riconoscimenti critici più prestigiosi, non sorprende in quest'ottica che «Salvatore Giuliano» (1962) incarni il vertice assoluto della sua concezione della messinscena e del suo stile innovativo. Per la prima volta le cadenze del thrilling si giovano del piglio documentaristico perché gran parte delle sequenze, dall'iniziale ritrovamento del cadavere di Giuliano all'immagine conclusiva che rimanda alla continuità dell'emergenza mafiosa, simulano una ripresa d'attualità e nello stesso tempo rafforzano il timbro epico espresso dal montaggio incalzante, la straordinaria fotografia in bianco e nero e la coesione del cast composto da smaliziati professionisti ed esordienti presi dalla strada.

Grazie ad acmi drammatiche come quelle della strage di Portella della Ginestra, il pianto della madre sul cadavere del bandito, il processo ai mafiosi di Viterbo e l'avvelenamento in carcere di Pisciotta si compie, in effetti, la sintesi cinematograficamente perfetta dell'investigazione etnico-sociale con il destino dei personaggi trascinati sullo sfondo tempestoso dei percorsi di crescita, i contrasti politici e i retroscena istituzionali del paese in cui ha continuato tuttavia a riconoscersi e non ha mai smesso d'amare. 

Caratterialmente Rosi non ha mai derogato da un profondo senso di responsabilità e un'autentica religione del lavoro convalidando in modalità sia istintive, sia programmatiche il proprio status d'autore: in cui, certo, spiccano il fiore all'occhiello dell'impegno civile, della denuncia del potere autocratico e dell'esigenza di una verità non manipolata, però mai a scapito della vocazione meridionalistica corroborata dalla lezione di intellettuali come Salvemini, Fortunato, Levi, Sciascia e del mix di ragione e sentimento che lo ha motivato e sospinto al di là della vulgata pubblicistica. Purtroppo la stessa da cui discendono le schematizzazioni di un contenutismo disinteressato alla qualità della fusione tra i linguaggi della fiction e quelli documentaristici e implicitamente all'essenza mitopoietica delle scelte linguistiche. Anche quando si classificano correttamente «Il caso Mattei» o «Lucky Luciano» (1973) nel sottogenere del film-inchiesta, ci si deve per esempio rendere conto di come l'inchiesta rappresenti sempre il soggetto del film anziché l'indirizzo della regia. 

Non è un caso che un allievo e un amico autorevole come Giuseppe Tornatore abbia posto un punto fermo alle biografie imbalsamate, alle etichette da bancarella: «Per F.R. ogni valore, per quanto prezioso, è sacrificabile alle leggi del racconto cinematografico: la bellezza, la chiarezza narrativa, la poesia del linguaggio, la naturale successione dei fatti storici, persino la verosimiglianza e la ricerca ostinata della realtà, ma mai la logica. Essere razionali a tutti i costi è la chiave di volta per comprendere la prospettiva civile di Francesco Rosi uomo e cineasta». 

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Il Mattino