Fresa, «Piano verticale» con haiku

Antonio Fresa
E venne il giorno in cui Antonio Fresa, per quanto coperto dal suo piano, si mise al centro della scena, dei riflettori, dell’attenzione. Sia pur dietro un «Pianoforte...

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E venne il giorno in cui Antonio Fresa, per quanto coperto dal suo piano, si mise al centro della scena, dei riflettori, dell’attenzione. Sia pur dietro un «Pianoforte verticale», che non è solo lo strumento utilizzato per questo suo primo disco da solista appena pubblicato da The Writing Room, ma anche «un concetto filosofico», spiega lui, che perdipiù ha sempre usato il pedale della sordina, anche qui alternando l’effetto sonico a quello più intellettuale, «quasi che il pianissimo della sordina permettesse alla mia voce di venire fuori, di farsi voce anche per chi ha paura di usare la sua voce».

Abituati come siamo a immaginare il quarantaseienne pianista, compositore, jazzista, arrangiatore, musicautore napoletano a mettersi al servizio di altri (Nino Buonocore, Joe Barbieri, Toni Bungaro) o del cinema (la colonna sonora di «La Gatta Cenerentola») o almeno di nascondersi in un gruppo (i Kantango o i South Designers), sorprende sapere che ieri era solo, sotto un antico ulivo a Lecce, a far risuonare le note di questo lavoro che, racconta soddisfatto, «apre una trilogia pianistica che meditavo da tempo. Ho recuperato musiche che non avevano avuto la fortuna che meritavano secondo me, scritte per film, documentari, o inseguendo le immagini che porto dentro».
Sonorità rafefatte, proprio come gli haiku che Lorenzo Maggiore ha scritto per gli otto brani inclusi, sospesi tra fascino melodico e pratica jazzistica, ma ancor più spesso figli di un’educazione minimalista: «I primi dischi che ricordo sono di Miles Davis e di Wim Mertens, poi ho scoperto Philip Glass, Michael Nyman, ma anche l’islandese Ólafur Arnalds», ammette Fresa, sessione men di lungo corso, uomo di studio di registrazione come da palco.
Luca Aquino - qui al suo ritorno alla musica, così a lungo atteso - emoziona in «Ispirazione» con la sua tromba, come altrimenti fa Raffaele Casarano in «Mio padre». I due strumenti solisti si muovo in una cornice ecologisticamente acustica: archi (una vera passione di Fresa), legni, percussioni e tastiere.
Musica applicata, quasi che scrivere per il cinema possa essere un’altra maniera di nascondersi, di non dare troppo nell’occhio, anche se Antonio è già salito persino sul palco di Sanremo autore ed accompagnatore della Vanoni (e di Bungaro e di Pacifico») l’anno scorso per «Imparare ad amarsi»: «Non sgomito certo per farmi notare e, di sicuro, quando scrivo per un film o un documentario metto al servizio del regista le mie note, ma le immagini mi stimolano, e in questo disco ci sono, non a caso, anche brani scritti senza destinazione alcuna, seguendo le immagini che nascevano dentro di me, il cinema della mia musica, la musica del mio cinema interiore», confida nascosto dietro un pianoforte, non verticale, così copre meglio.

E venne il giorno in cui Antonio Fresa, per quanto coperto dal suo piano, si mise al centro della scena, dei riflettori, dell’attenzione. Sia pur dietro un «Pianoforte verticale», che non è solo lo strumento utilizzato per questo suo primo disco da solista appena pubblicato da The Writing Room, ma anche «un concetto filosofico», spiega lui, che perdipiù ha sempre usato il pedale della sordina, anche qui alternando l’effetto sonico a quello più intellettuale, «quasi che il pianissimo della sordina permettesse alla mia voce di venire fuori, di farsi voce anche per chi ha paura di usare la sua voce».
Abituati come siamo a immaginare il quarantaseienne pianista, compositore, jazzista, arrangiatore, musicautore napoletano a mettersi al servizio di altri (Nino Buonocore, Joe Barbieri, Toni Bungaro) o del cinema (la colonna sonora di «La Gatta Cenerentola») o almeno di nascondersi in un gruppo (i Kantango o i South Designers), sorprende sapere che ieri era solo, sotto un antico ulivo a Lecce, a far risuonare le note di questo lavoro che, racconta soddisfatto, «apre una trilogia pianistica che meditavo da tempo. Ho recuperato musiche che non avevano avuto la fortuna che meritavano secondo me, scritte per film, documentari, o inseguendo le immagini che porto dentro».
Sonorità rafefatte, proprio come gli haiku che Lorenzo Maggiore ha scritto per gli otto brani inclusi, sospesi tra fascino melodico e pratica jazzistica, ma ancor più spesso figli di un’educazione minimalista: «I primi dischi che ricordo sono di Miles Davis e di Wim Mertens, poi ho scoperto Philip Glass, Michael Nyman, ma anche l’islandese Ólafur Arnalds», ammette Fresa, sessione men di lungo corso, uomo di studio di registrazione come da palco.
Luca Aquino - qui al suo ritorno alla musica, così a lungo atteso - emoziona in «Ispirazione» con la sua tromba, come altrimenti fa Raffaele Casarano in «Mio padre». I due strumenti solisti si muovo in una cornice ecologisticamente acustica: archi (una vera passione di Fresa), legni, percussioni e tastiere.
Musica applicata, quasi che scrivere per il cinema possa essere un’altra maniera di nascondersi, di non dare troppo nell’occhio, anche se Antonio è già salito persino sul palco di Sanremo autore ed accompagnatore della Vanoni (e di Bungaro e di Pacifico») l’anno scorso per «Imparare ad amarsi»: «Non sgomito certo per farmi notare e, di sicuro, quando scrivo per un film o un documentario metto al servizio del regista le mie note, ma le immagini mi stimolano, e in questo disco ci sono, non a caso, anche brani scritti senza destinazione alcuna, seguendo le immagini che nascevano dentro di me, il cinema della mia musica, la musica del mio cinema interiore», confida nascosto dietro un pianoforte, non verticale, così copre meglio.

E venne il giorno in cui Antonio Fresa, per quanto coperto dal suo piano, si mise al centro della scena, dei riflettori, dell’attenzione. Sia pur dietro un «Pianoforte verticale», che non è solo lo strumento utilizzato per questo suo primo disco da solista appena pubblicato da The Writing Room, ma anche «un concetto filosofico», spiega lui, che perdipiù ha sempre usato il pedale della sordina, anche qui alternando l’effetto sonico a quello più intellettuale, «quasi che il pianissimo della sordina permettesse alla mia voce di venire fuori, di farsi voce anche per chi ha paura di usare la sua voce».
Abituati come siamo a immaginare il quarantaseienne pianista, compositore, jazzista, arrangiatore, musicautore napoletano a mettersi al servizio di altri (Nino Buonocore, Joe Barbieri, Toni Bungaro) o del cinema (la colonna sonora di «La Gatta Cenerentola») o almeno di nascondersi in un gruppo (i Kantango o i South Designers), sorprende sapere che ieri era solo, sotto un antico ulivo a Lecce, a far risuonare le note di questo lavoro che, racconta soddisfatto, «apre una trilogia pianistica che meditavo da tempo. Ho recuperato musiche che non avevano avuto la fortuna che meritavano secondo me, scritte per film, documentari, o inseguendo le immagini che porto dentro».
Sonorità rafefatte, proprio come gli haiku che Lorenzo Maggiore ha scritto per gli otto brani inclusi, sospesi tra fascino melodico e pratica jazzistica, ma ancor più spesso figli di un’educazione minimalista: «I primi dischi che ricordo sono di Miles Davis e di Wim Mertens, poi ho scoperto Philip Glass, Michael Nyman, ma anche l’islandese Ólafur Arnalds», ammette Fresa, sessione men di lungo corso, uomo di studio di registrazione come da palco.
Luca Aquino - qui al suo ritorno alla musica, così a lungo atteso - emoziona in «Ispirazione» con la sua tromba, come altrimenti fa Raffaele Casarano in «Mio padre». I due strumenti solisti si muovo in una cornice ecologisticamente acustica: archi (una vera passione di Fresa), legni, percussioni e tastiere.
Musica applicata, quasi che scrivere per il cinema possa essere un’altra maniera di nascondersi, di non dare troppo nell’occhio, anche se Antonio è già salito persino sul palco di Sanremo autore ed accompagnatore della Vanoni (e di Bungaro e di Pacifico») l’anno scorso per «Imparare ad amarsi»: «Non sgomito certo per farmi notare e, di sicuro, quando scrivo per un film o un documentario metto al servizio del regista le mie note, ma le immagini mi stimolano, e in questo disco ci sono, non a caso, anche brani scritti senza destinazione alcuna, seguendo le immagini che nascevano dentro di me, il cinema della mia musica, la musica del mio cinema interiore», confida nascosto dietro un pianoforte, non verticale, così copre meglio.

E venne il giorno in cui Antonio Fresa, per quanto coperto dal suo piano, si mise al centro della scena, dei riflettori, dell’attenzione. Sia pur dietro un «Pianoforte verticale», che non è solo lo strumento utilizzato per questo suo primo disco da solista appena pubblicato da The Writing Room, ma anche «un concetto filosofico», spiega lui, che perdipiù ha sempre usato il pedale della sordina, anche qui alternando l’effetto sonico a quello più intellettuale, «quasi che il pianissimo della sordina permettesse alla mia voce di venire fuori, di farsi voce anche per chi ha paura di usare la sua voce».
Abituati come siamo a immaginare il quarantaseienne pianista, compositore, jazzista, arrangiatore, musicautore napoletano a mettersi al servizio di altri (Nino Buonocore, Joe Barbieri, Toni Bungaro) o del cinema (la colonna sonora di «La Gatta Cenerentola») o almeno di nascondersi in un gruppo (i Kantango o i South Designers), sorprende sapere che ieri era solo, sotto un antico ulivo a Lecce, a far risuonare le note di questo lavoro che, racconta soddisfatto, «apre una trilogia pianistica che meditavo da tempo. Ho recuperato musiche che non avevano avuto la fortuna che meritavano secondo me, scritte per film, documentari, o inseguendo le immagini che porto dentro».
Sonorità rafefatte, proprio come gli haiku che Lorenzo Maggiore ha scritto per gli otto brani inclusi, sospesi tra fascino melodico e pratica jazzistica, ma ancor più spesso figli di un’educazione minimalista: «I primi dischi che ricordo sono di Miles Davis e di Wim Mertens, poi ho scoperto Philip Glass, Michael Nyman, ma anche l’islandese Ólafur Arnalds», ammette Fresa, sessione men di lungo corso, uomo di studio di registrazione come da palco.
Luca Aquino - qui al suo ritorno alla musica, così a lungo atteso - emoziona in «Ispirazione» con la sua tromba, come altrimenti fa Raffaele Casarano in «Mio padre». I due strumenti solisti si muovo in una cornice ecologisticamente acustica: archi (una vera passione di Fresa), legni, percussioni e tastiere.

Musica applicata, quasi che scrivere per il cinema possa essere un’altra maniera di nascondersi, di non dare troppo nell’occhio, anche se Antonio è già salito persino sul palco di Sanremo autore ed accompagnatore della Vanoni (e di Bungaro e di Pacifico») l’anno scorso per «Imparare ad amarsi»: «Non sgomito certo per farmi notare e, di sicuro, quando scrivo per un film o un documentario metto al servizio del regista le mie note, ma le immagini mi stimolano, e in questo disco ci sono, non a caso, anche brani scritti senza destinazione alcuna, seguendo le immagini che nascevano dentro di me, il cinema della mia musica, la musica del mio cinema interiore», confida nascosto dietro un pianoforte, non verticale, così copre meglio. Leggi l'articolo completo su
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