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Ferito da questi tempi pandemici come tutti noi, più contento di molti di noi per la musica che gli gira intorno e dentro, Giovanni Luca Picariello da Avellino, per i più Ghemon, 38 anni, è passato dalla ventunesima posizione sanremese con la pur ottima «Momento perfetto» all’ottava posizione in hit parade con il suo album, «E vissero feriti e contenti», appunto: dei reduci festivalieri nella classifica degli album più venduti ci sono solo i Maneskin, primi, Madame, seconda, e Colapesce-Dimartino, terzi: «Non dico che non aspiravo ad una posizione migliore all’Ariston, ma sapevo come vanno le cose con me in certe dimensioni», spiega lui, che piazza un altro colpo vincente, per qualità ancor prima che per quantità, dopo dischi come «OrchiDEE», «Mezzanotte», «Scritto nelle stelle».
Il cocktail sonico dell’ex rapper che torna a rappare, del cantautore che si concede al reggae, del soulman agrodolce si arricchisce di sapori importanti, di canzoni come «Piccoli brividi», «Non posso salvarti» (soul retrò con iniezioni di swing), «Nel mio elemento», «Difficile» (reggae) e «Trompe l’oeil», destinate a durare. Dimagritissimo, Ghemon è in forma dentro come fuori: «La corsa mi ha fatto perdere peso e trovare concentrazione: ti spiega dove stai andando, ti dà orizzonte, oltre che fiato. Il virus mi ha costretto a cercare buone vibrazioni: chiuso in casa come tutti noi, non avevo altra possibilità.
Gli arrangiamenti, i cori, la produzione (tutto diviso con Simone Privitera, Claudio La Rocca, Fabio Brignone e Giuseppe Seccia), la diversità dei panorami sonori e sentimentali evocati aggiornano l’autodefinizione di sé data in «Inguaribile e romantico»: la soulful house di «Tigre» e la provocazione di «Infinito» (con l’amata che inquina la casa ascoltando il reggaeton) fanno i conti con una quotidianità che spesso è ben poco romantica. «Piccoli brividi» confessa: «Ho camminato scalzo su un campo di mine». «La mia voglia di cambiare, di non restare fermo, di non fotocopiare il successo ottenuto, sono mine sul percorso che mi sono messo da solo. Poi ci sono quelle che ho trovato, che ho confessato, come la depressione, o che ancora nascondo dentro di me. E quelle che non so dove sono, cosa sono, chi le ha piazzate e perché».
Inutile dire che la ferita più dolorosa è l’assenza del palco, dei live: «Sono fermo, siamo tutti fermi, da così tanto tempo che non era mai successo prima. Si scrivono le canzoni, si registrano i dischi, si va da Amadeus per poi presentarsi davanti al pubblico, dare gioia e riprendersela indietro moltiplicata per mille. Senza tutto questo il mio mestiere è un po’ inutile, è come un cantante che apre la bocca ma resta muto. Noi cantiamo solo aspettando il momento di tornare a farlo per delle persone fisiche davanti. Lo streaming è un placebo, ma meglio di niente. E, se tra 15 giorni, l’esperimento del concerto di Barcellona per cinquemila spettatori tamponati, avrà funzionato con un contagio pari a zero sono pronto anche a questa dimensione. Rivoglio il palco, rivoglio la gente, gli applausi, i fischi, qualsiasi cosa. Rivoglio i concerti».
Alla fine di «Feriti e contenti» una voce avverte: «Il disco è finito». E viene subito voglia di ascoltarlo di nuovo.
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