Sam Gleaves, il cowboy gay ​con il banjo che sfida i conservatori sessisti

Sam Gleaves
Invece di chiamare in causa «I segreti di Brokeback mountain», la storia di Sam Gleaves può essere raccontata con i suoi versi: «Andiamo con ordine: sono...

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Invece di chiamare in causa «I segreti di Brokeback mountain», la storia di Sam Gleaves può essere raccontata con i suoi versi: «Andiamo con ordine: sono un uomo di fatica, con croste sulle nocche, polvere sulle mani. Probabilmente non avreste mai immaginato che ho un uomo che mi aspetta a casa. A dire la verità, non voglio litigare, ma voglio dirvi una cosa sola chiaro e forte: non siamo forse carne e sangue uguali? E non siamo anche fratelli?». «Ain’t we brothers» è un pezzo scritto da Gleases sulla storia di Sam Hall, un minatore della West Virginia che lotto contro le discriminazioni omofobiche in miniera. Sam non è un minatore, ma ha sfidato con la sua chitarra e il suo banjo un mondo forse ancora più conservatore, quello della musica country e bluegrass, come spiegherà oggi Alessandro Portelli, introducendo l’«incontro cantabile» in programma alle 21 all’ex asilio Filangieri, con la traduzione di Susanna Poole.


Giovane e innamorato dei canti degli Appalachi, alle storie tradizionali affrontate nel repertorio country’n’western Gleaves ha aggiunto liriche schierate sul fronte dei diritti civili degli omosessuali, e non solo, perché in «Orlando», come nella stessa «Ain’t we brothers» parla anche della scabrosa condizione dei migranti nella terra del presunto sogno a stelle e strisce. Sam, spiega Portelli, «enuncia il punto di vista gay con elementare e provocatoria naturalezza dall’interno di una cultura profondamente sessista come quella del Sud rurale americano». 

Il prof di Letteratura americana della Sapienza iscrive il musicista al fronte dell’«altra America», quella così spesso studiata, analizzata e descritta proprio da Portelli, che inizia con Woody Guthrie e Pete Seeger per continuare con Bob Dylan e Bruce Springsteen, per fermarci al solo elenco musicale. A colpirlo in Gleaves deve essere stato il cocktail di fedeltà alla tradizione degli Appalachi - Sam nei suoi dischi e nei suoi concerti non fa mai mancare classici popolari delle montagne - e capacità di farsi narratore del suo tempo, di non vivere prigioniero come tanti della «old time music». Da ragazzo ha imparato a suonare con la guida di un insegnante e barbiere, Jim Lloyd, poi ha seguito le impronte di Sheila Kay Adams, cantautrice di settima generazione, si è diplomato in Folklore al Berea college, con la cui band ha iniziato la sua carriera di performer, poi alternata ad esibizioni soliste.


«Ain’t we brothers» è il titolo anche del suo più recente album, «un lavoro sorprendente», l’ha definito Peggy Seeger, sorella di Pete ed ex moglie di Ewan MacColl: se lo dice lei di prestare orecchio al cowboy gay con la chitarra forse vale davvero la pena di non perdere l’opportunità che ci offre il collettivo dell’ex asilo Filangieri. In fondo, suggerisce Portelli, lui ha sì 24 anni, ma anche due secoli di musica e lotte per i diritti civili alle spalle. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino