Lennon e «Imagine»: liberate la canzone tradita

Yoko Ono John Lennon
Non servirà servirà a liberare «Imagine» dall’insopportabile profumo ecumenico che le si è ingiustamente azzeccato addosso, ma sarebbe bello...

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Non servirà servirà a liberare «Imagine» dall’insopportabile profumo ecumenico che le si è ingiustamente azzeccato addosso, ma sarebbe bello se ciò accadesse. Il 5 ottobre, il più celebrato lp solista di John Lennon torna nei negozi, come si usa, in diverse edizioni, dalla ristampa semplice su cd a quella in vinile e a quella espansa in cofanetto con sei dischi e diverse versioni alternative, provini, assoli recuperati dai nastri originali, un documentario, un libro, per un totale di 140 tracce in tutto, remixate e rimasterizzate. Non servirà, non basterà a rendere a quella canzone-inno il suo potere eversivo nemmeno l’arrivo, anzi il ritorno, nei cinema, dall’8 al 10 ottobre, di «Imagine», il film, prodotto e diretto da Lennon e Yoko Ono, anch’esso restaurato e rimasterizzato e accompagnato da quindici minuti inediti, in cui spiccano filmati in studio in cui la coppia è in compagnia di George Harrison, Nicky Hopkins, Alan White e Klaus Voormann. Non basterà nemmeno, anzi non ci proverà proprio a ridare a John un ruolo da bastian contrario, nemmeno «Imagine John Yoko», un dietro le quinte del disco scritto dalla Ono, vedova nera ormai riciclata anche lei in chiave buonista, come conferma l’edizione italiana del libro, 320 pagine illustratissime pubblicate da L’Ippocampo.

Eppure, riascoltata nella sua scabrosa essenza, la storia di quell’lp targato 1971 brilla ancora chiara in direzione ostinata e contraria. I Beatles si sono appena sciolti, e John, spiato dalla Cia e dall’Fbi, ritenuto di simpatie comuniste e potenziale terrorista, ha pubblicato solo l’anno prima «John Lennon/Plastic Ono Band» con il capolavoro autobiografico «Working class hero» e l’esorcismo di «God» che aveva chiuso ufficialmente gli anni Sessanta, con le loro speranze ed utopie. «The dream is over», cantava in quel disco l’uomo di Liverpool, decretando definitivamente la fine degli anni Sessanta e delle sue utopie. Il sogno di «Imagine», frase rubata alla poesie di Yoko, è infatti, dirompente, non spera più di unire il mondo sotto la stessa bandiera, ma che non ci siano più bandiere. La frase chiave, taciuta da chi spaccia il brano per una canzone da boy scout, dice «Imagine there’s no countries... nothing to kill or die for... and no religion too»: «Immagina che non esistano le nazioni... non ci sia nessuna ragione per la quale uccidere o morire... e nessuna religione». Lennon e Voorman suonano due pianoforti senza alcun virtuosismo, White ci aggiunge appena un contrappunto di batteria.
Intorno al brano che dà il titolo al disco, decisamente demodè in tempi di oscuro neopatriottismo sovranista, si muovono canzoni d’amore e di rabbia: «Jealous guy» è banale quanto intensa sul primo fronte, «How do you sleep» è dirompente sul secondo. Un attacco frontale all’ex socio Paul McCartney, sfottuto anche in copertina in una foto parodistica: «Vivi con sempliciotti borghesi che ti dicono che sei il re, ma corri quando mamma ti dice qualcosa. La sola cosa che hai fatto è stata “Yesterday” e da allora è stato solo “Another day”. Come dormi? Come fai a dormire la notte? Una faccia carina può durare un anno o due ma presto si accorgeranno di cosa sei capace, il tuo suono è muzak per le mie orecchie eppure avresti dovuto imparare qualcosa in tutti questi anni. Come dormi? Come dai a dormire la notte?».

Allusioni feroci, giochi di parole, regolamenti di conti, battute sulla moglie Linda, schegge di una diatriba selvaggia oggi ridotta a favoletta per spacciatori di merchandising. Intorno, altri brani che meritano di essere (ri)ascoltati e (ri)vissuti per quello che erano e sono: il blues radicale di «It’s so hard», con King Curtis al sax, il velleitario dylanismo di «I don’t wanna be a soldier mama I don’t wanna die», la rabbia di «Gimme some truth», l’haiku di «Oh my love».
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Il Mattino