Parlo di me, Iva Zanicchi: «Basta parolacce, giuro ma ingiusto farne un caso»

La cantante e conduttrice: «Mia madre era un basso, la zia un contralto: che voci!»

Parlo di me, Iva Zanicchi: «Basta parolacce, giuro ma ingiusto farne un caso»
Per tredici anni Iva Zanicchi è entrata nelle nostre case alle sei di sera, dicendo che okay, il prezzo è giusto. Aveva costruito un’immagine da signora della...

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Per tredici anni Iva Zanicchi è entrata nelle nostre case alle sei di sera, dicendo che okay, il prezzo è giusto. Aveva costruito un’immagine da signora della tv commerciale, pop, sobria, capace di portarla in due grandi teatri istituzionali, Domenica In e il Parlamento europeo. La tv d’oggi non sa fare a meno di lei. È arrivata in finale a Ballando con le stelle, va da Matano e Mara Venier, Milly Carlucci la vuole nel prossimo programma e l’ha difesa da chi l’accusa di derive trash. Lei che debuttò venticinquenne nel ‘65 a Sanremo e che vuol sentirsi libera di parlare di sesso nelle interviste. Non illudetevi, non in questa. 



Che cosa non le perdonano e che cosa si rimprovera lei? 
«Invecchiando mi scappa qualche parola fuori posto, ne dice anche Mara Maionchi, ma basta che qualcuno la riprenda, per creare un caso. In giro c’è tanto astio. Ho raccontato barzellette - devo dire la verità - un po’ spinte. Ma lei ne conosce di pulite? Io non le trovo. Mi hanno scritto genitori di ragazzini, mi sono sentita in colpa. La verità è che non si può più dire nulla, sembrano diventati tutti san Francesco. Se vedo uno che sorride, mi lascio andare. Ma ho fatto un fioretto. Basta parolacce». 

Perché si chiama Iva?
«Non è così raro in Toscana, specialmente al maschile. I miei stavano più spesso là che in Emilia. Vaglie, il mio paese, è al confine con la provincia di Lucca. Nell’antichità pagava una gabella per tenersi la toscanità. I vecchi facevano i pastori, andavano in Maremma, quando non parlavano in dialetto dicevano suvvia e aspiravano la C. Iva ricordava Montand, origini di Livorno. Un’amica di mia madre si chiamava Brandina, in paese c’era una signora Viria e un tipo che per nome diede ai figli i numeri, pensando di fare una squadra di calcio: Primo, Secondo, Terzio, si fermò a Ottavio perché nacque una femmina. Mia cugina era Vidèa, il padre era stato in Uruguay. In Emilia molti si chiamano Firmato, perché sotto i manifesti del maresciallo Diaz c’era scritto così: firmato Diaz. Pensavano fosse un nome».

Com’era Vaglie per una bambina?
«Un piccolo borgo senza neanche la strada. C’era la mulattiera per gli asini. Quando il mio papà spostò la famiglia a Ligonchio, almeno avevamo la farmacia. Gli uomini erano socialisti, le donne andavano in chiesa. In paese vedemmo per la prima volta una macchina nel ‘50, una jeep americana che portava la statua della Madonna pellegrina. Sembrava un miracolo vero. La gente era fantasiosa, di sera si radunava per leggere. Mio nonno conosceva tutti i classici, un tipo sapeva a memoria la Divina Commedia, un altro per gelosia imparò la Gerusalemme Liberata. Parlavano in rima e tutti avevano una voce meravigliosa».
 

Nel senso che cantavano bene?
«Tutti, tutte. Sarà stata l’acqua, il dna, non lo so. Il coro a cappella delle donne in chiesa era celestiale. Mia madre era un basso, la zia un contralto. Veniva a sentirle il vescovo. Alla domenica, gli uomini si vedevano nell’osteria della nonna, bevevano e cantavano arie di Verdi. Le donne non potevano entrare, io sì, ero la nipote. Ho cominciato a esibirmi là. È un mondo scomparso. La sera si andava in casa dei vicini e si portava il fuoco, tizzoni accesi, pezzi di legno per il camino, così si cuocevano le castagne e si parlava. Due centrali idroelettriche davano lavoro a tutta la montagna. Certi venivano dal Veneto. Dopo la guerra, molti capifamiglia sono partiti per la Liguria, per far studiare i figli, da noi c’erano solo le elementari. Altri si sono trasferiti nella zona nuova, la Coperchiaia, così si è spopolata la montagna. D’inverno Vaglie chiude. Non resta nemmeno una persona. Tornano tutti in estate, chi da Reggio, chi da Spezia, e mettono i gerani alle finestre. Non è commovente? A luglio ci vado anch’io. È uguale a sempre». 

Che giocattoli c’erano in casa sua?
«Non ce n’erano. Mamma faceva bambole di pezza e con il carbone disegnava la bocca e gli occhi. Non ne ho mai avute di vere, lei le desiderava più di me. Ovunque sia stata in tournée, ne compravo e gliele portavo. In Giappone ne presi una col kimono dentro una scatola di vetro, non vollero imbarcarla, ma nella stiva si sarebbe rotta. Mi salvò il comandante dell’Alitalia, non so come arrivò intatta. Le tengo tutte in soffitta. Il primo giocattolo in casa è stato un fucilino di latta per mio fratello. Era il più piccino, lo abbiamo amato tanto, l’ho perso due anni fa con il covid. Ha avuto quattro mamme, tutte noi sorelle».

Come fa una bimba di Vaglie a entrare all’Olympia di Parigi, al Madison di New York, al parlamento europeo, senza sentirsi a disagio?
«Ho avuto la fortuna di andare a scuola in città, ma prima ancora avevo una nonna che era una grande cuoca, fanatica delle buone maniere, di come si sta a tavola, le posate, i bicchieri. Aveva lavorato a servizio in casa di certi marchesi a Genova. Nelle case dei vicini si mangiava senza tovaglia, da noi la nonna la metteva. Sapeva come pulire la frutta col coltello. Il nonno diceva che si era montata la testa. Quando mi sono trovata a cena in società, a vent’anni, avevo le sue lezioni. A Vaglie ho imparato come si rimane umili, il senso dell’amicizia, la generosità di accogliere una persona anziana rimasta vedova, prendersene cura, tenerle compagnia. Sono cose che servono, quando vai per il mondo». 

C’è una domanda che vorrei farle da sempre. Come si festeggia la vittoria a un Festival di Sanremo, se poco prima è morto Luigi Tenco? 
«Era il mio secondo festival. Quando al paese moriva qualcuno, era lutto per tutti, come fosse successo dentro casa. Seppi di Tenco alle 6 del mattino, urlavano, piangevamo. Presi la valigia e cominciai a prepararla. Mia madre era da certi amici a Imperia. La chiamai, le dissi tutto, rispose: ti veniamo a prendere. Per me era scontato che fosse tutto finito, che avremmo forse ripreso - che so - dopo una settimana. Scendo nella hall, incontro il capo ufficio stampa, mi chiede: dove vai? Eh, dico, mia madre sta arrivando, torno a casa. Sei matta!, mi fa, guarda che il festival va avanti. Forse avevano ragione loro, a me parve orribile. Col cadavere di Tenco là, si preoccupavano di dirmi che dovevo cantare». 

Cosa ricorda dei suoi festival di Napoli?
«Nel ‘66 avevo una bellissima canzone, “Ma Pecché”, l’ultima scritta da Antonio Vian prima di morire. Anni dopo ho presentato un’edizione su Rete4. L’hanno fatto morire, peccato, c’è stato un periodo in cui era importante quanto Sanremo. Faceva vendere i dischi al sud. La canzone italiana è figlia di quella napoletana. Ci sono pagine stupende da repertorio lirico. Non lo so, forse ci siamo distratti. Perché non nasce più un Verdi? Dico Verdi, ma andrebbe bene Donizetti, o Bellini, Puccini. Forse fa male bruciare le tappe, forse quando eravamo poveri avevamo più tempo per pensare». 

Che pensa della nuova carriera di Orietta Berti?
«È rinata. La vedi con Achille Lauro, con Fedez, sembra un connubio strano, invece è perfetto, ne esce benissimo. Non so se con qualcun’altra funzionerebbe. Io per esempio sono una solista. Penso sia una formula irripetibile». 

Le piacerebbe reincontrare Mina?


«Molto, moltissimo. Se cantasse, non so dove, in qualsiasi luogo, la raggiungerei. Chi l’ha amata, vorrebbe rivederla. Ci siamo incrociate nella stessa casa discografica, ma non eravamo amiche. Non la sento da quando si è ritirata. Per me sparire è inconcepibile. Ho un’età in cui dovrei smettere, ma non sono pronta a perdere il contatto con la gente. Quando vai in scena, ogni dolore sparisce. Stai malissimo, canti, e non te ne accorgi. Poi, quando hai finito, quando si spegne l’applauso, fa male tutto più di prima». 

 

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Il Mattino