È comprensibile, ma forse non tanto propizia l'iniziativa di fare uscire per tre giorni nelle sale (da oggi a mercoledì) i primi due episodi della seconda...
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Quello che si vede materializzarsi in un set allestito con una buona volontà non pari all'effetto ottenuto nell'isolato tutto è lindo e pinto, persino il carretto del fruttivendolo e il manifesto del Pci in bella vista all'angolo del palazzo - è un microcosmo artefatto, senza le prese d'aria drammaturgiche congegnate dalla Ferrante nonché raccontato con un andamento pedissequo, una «bella fotografia», un diligente copia-incolla in cui si agita quasi a comando un'umanità schematica, con i vari personaggi che accompagnano il percorso delle ragazze ridotti a funzioni, ciascuno con la sua brava etichetta rispondente a un didascalismo francamente eccessivo anche rispetto alle esigenze dell'ampio contatto col pubblico. L'afflato epico ottenuto nelle migliori pagine del romanzo con una strategia narrativa a contrasto - quella dell'introspezione minuziosa e del flusso di coscienza personalizzato - si trasforma, così, in una sorta di neorealismo postumo «for dummies», per negati che, purtroppo, non gode neppure del jolly rappresentato nella prima stagione dalle commoventi bambine scelte per impersonare Lenù e Lila. Nessuna colpa, ovviamente, va ascritta a Margherita Mazzucco che interpreta l'amica studiosa, cocciuta e talvolta catatonica nei suoi imbarazzi e a Gaia Girace che è l'amica geniale malmaritata ed esposta ai violenti contraccolpi provocati dall'indole ribelle, ma nessuna delle due sembra messa in grado, specie quando il dialogo esige di alzare i toni, di sostenere il fardello delle ingenti tematiche, a cominciare dal rapporto delle donne con la figura materna, il proprio corpo e le iniquità dell'ordine patriarcale il cui femminismo pugnace sembra a volte risolto con lo stesso piglio vittimistico di un «Luisa Spagnoli», «Il bello delle donne» o «La dottoressa Giò»; succede così, tra l'altro, che anche il senso della circolarità del tempo, congegnato dalla Ferrante per non chiedere né ottenere risposte, si ritrovi affidato in toto alle esternazioni della voce fuori campo di Alba Rohrwacher. Ultime, ma non poco scomode, le valutazioni da attribuire al ruolo preponderante della città come chiave realistica e insieme metaforica della saga: se si levano puntualmente aspre proteste contro il filone «Gomorra» con la certezza che si tratti di un bieco complotto per venderci allo straniero, come la mettiamo con il culto di massa del libro nato e cresciuto in sintonia con l'immagine pittoresca di Napoli coltivata negli Usa? Molti assicurano, poi, che gli stereotipi cattivisti della fiction nuocerebbero alla Suprema Diversità dell'odiosamata metropoli, però non scherzano affatto anche quelli progressisti/cartolineschi. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino