«Loro», s'era capito, sono «quelli che contano» in un'Italia corrotta e corruttrice abbagliata dai saldi di fine stagione della politica....
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L'ambizione del regista è dichiarata già nei titoli di testa, nella citazione icastica di Giorgio Manganelli: «Tutto documentato. Tutto arbitrario». E lo spiega, il premio Oscar: «Loro ambisce altresì a raccontare alcuni italiani, nuovi e antichi al contempo. Anime di un purgatorio immaginario e moderno che stabiliscono, sulla base di spinte eterogenee quali ambizione, ammirazione, innamoramento, interesse, tornaconto personale, di provare a ruotare intorno a una sorta di paradiso in carne e ossa: un uomo di nome Silvio Berlusconi». È come se percorresse due strade parallele, il film di Sorrentino: da una parte il faccendiere senza scrupoli alla Tarantini, interpretato benissimo da Riccardo Scamarcio, deciso a sfondare fregandosene dell'onestà, dall'altra l'ex premier incarnato con mimesi straordinaria da Toni Servillo, che non si rassegna alla perdita del potere. «Abbiamo tutto» tenta di consolarlo dolente la moglie Veronica-Elena Sofia Ricci. «Tutto non è abbastanza».
Di là, oltre la siepe, nella casa sarda con piscina presa in affitto dal faccendiere in fuga da Taranto la coca scorre a fiumi, il sesso può valere una gara d'appalto, le ragazze sono un'esca abbagliante per scalate e affari di altro tipo. Di qua, nel villone solitario con il giardino dei cactus e il vulcano che piaceva a Putin, Veronica legge Saramago («guarda che t'insulta» dice al marito), Silvio si arrovella sulla sua ascesa e caduta («i comunisti mi hanno scippato il governo, i figli le aziende, Veronica mi vede come la fonte di tutti i mali»). Nel gioco dei rimandi, del chi è chi, Kasia Smutniak nuda e spavalda fa pensare forse all'«ape regina» Sabina Began, Fabrizio Bentivoglio è un ex ministro con il vezzo della poesia che potrebbe alludere a Bondi, Roberto Herlitzka un consigliere fidato e felpato, Ugo Pagliai si cala nei panni dell'antico amico Mike Bongiorno trascurato e deluso, Ricky Memphis potrebbe essere Ricucci. Sono pochi, nel circo che si muove intorno a «Lui», i personaggi con tanto di nome e cognome: lo chansonnier di fiducia Mariano Apicella/Giovanni Esposito («nella sua villa Agnelli aveva il ritratto di Bacon, noi abbiamo Apicella», sospira Veronica infastidita); e Noemi Letizia, la ragazza bionda di Casoria che chiamava Silvio B. «Papi». «Ho voluto raccontare soprattutto l'uomo e in modo marginale il politico» ha sempre detto e ripete ora Sorrentino. Solo che in Berlusconi l'uomo e il politico si fondono con irredimibile naturalezza e il primo ha saputo essere «infaticabile narratore» del secondo «e anche per questa ragione è inevitabilmente diventato un simbolo. E un simbolo, a differenza di un comune essere umano, è una proprietà comune». Proprio in nome e per conto di questo disvelamento della politica, dell'incarnazione di «un mistero per la prima volta avvicinabile», laddove la sua corte si mostra per contrappasso «prevedibile ma indecifrabile», Sorrentino può permettersi il lusso di guardare a questa materia incandescente con lo sguardo più rivoluzionario: quello della tenerezza.
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Il Mattino