Le chiama «tradinvenzioni». Il neologismo ha in sé i significati di tradurre e tradire: «L'ho fatto con gli altri classici in cui mi sono imbattuto....
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Quanti attori impiega, Moscato?
«Venti, il volto coperto da un velo di polvere, accumulo di esperienze e dolore, zombie di una babelica Neapolis, in un cimitero sulla collina, Partenope, sterminato obitorio sorto dopo una eruzione del Vesuvio».
Com'è nata questa passione per Masters?
«Il suo è un libro che molti di noi hanno amato in giovinezza, legandolo al sogno che avevamo allora di poter trasformare la società. Fa parte dell'indimenticabile bagaglio di una generazione. Ho cominciato a tradurre l'opera, e a tradirla nella mia lingua, nel mio napoletano oltre 20 anni fa. Degli 80 frame, però, ne porto in scena solo 20, per altrettanti personaggi».
Del tradimento fa parte la nuova ambientazione.
«Cambiano il luogo e la lingua, che è pur sempre carne. Non potevo escludere la mia formazione di artista visceralmente napoletano. Attraverso un capolavoro della letteratura universale guardo la mia città».
E cambia anche l'atmosfera.
«E il tono. La maestosità e la solennità di questo discorso sulla morte, ricco di rigore protestante, di spirito calvinista, si perde nel crogiuolo di una umanità bassa, abietta, meschina, chiusa nella propria individualità senza rapporto con gli altri, come una classe morta di Kantor, che è chiusa in sé, ma che io, nel ruolo di demiurgo della messinscena, sono l'unico a mettere in rapporto».
La scena?
«Oltre alla mia drammaturgia, Raccogliere & bruciare ha tre testi che le fanno da corollario: la scenografia, costituita dalle panche su cui siederanno i morti, e da una bellissima installazione di croci lignee che Mimmo Paladino ha realizzato con eccelsa maestria».
Gli altri due corollari?
«Lo splendido disegno luci di Cesare Accetta, e le canzoni, una partitura dal vivo con versi miei e musica di Enza Di Blasio, che le canta calandosi nel ruolo centrale della folksinger».
È vero che nel segno di Masters e della sua «Antologia» lei incontrò per la prima volta Paladino?
«Sì. Tra i personaggi del mio Co'stell'azioni c'era già la vedova di Spoon River. La sua Montagna di sale si ergeva sopra, in piazza del Plebiscito, noi eravamo in scena sotto, nelle Scuderie di Palazzo Reale, ma lungo il percorso che conduceva nella sala della rappresentazione c'erano altre sue installazioni».
Spoon River diventa Spentaluce.
«Metafora di questa nostra città arsa dal vulcano. Io non credo che Napoli sia il paese del sole, da almeno cinquant'anni. Parlo di un punto di vista etico, non geografico».
Ancora: perché quel titolo?
«Un'altra metafora; sottende il teatro, che raccoglie i semi dell'autore e li brucia in un olocausto fisico, emotivo, ma effimero proprio com'è il teatro, che muore ogni sera per rinnovarsi in quella successiva e, poi, perdersi definitivamente nell'oblio».
Qual è il senso complessivo del suo spettacolo?
«C'è un momento in cui vengo avanti ed esplicito l'antracht: per noi napoletani l'aldilà è l'aldiqua, ha i connotati del nostro vivere quotidiano. Siamo profondamente pagani, non cerchiamo Enea e la Sibilla per scendere nell'Ade. L'aldilà è a casa nosta. L'inferno siamo noi. Per rappresentare la mia Spoon River ho dovuto inserire questa concezione dell'oltretomba. Ecco perché i miei morti sono vivi in scena. Siamo già morti ora, ma con tutte le esternazioni fisiche dell'essere vivi. Napoli zombie». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino