«Il San Carlo, la Biblioteca Nazionale, i Girolamini, il San Pietro a Majella, il Museo Archeologico, Capodimonte... Quanto si potrebbe fare coniugando tutte queste forze...
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Allora maestro Muti, Napoli e la sua cultura sono sempre al centro dei suoi interessi?
«E come non potrebbe? Sono nato a Napoli per desiderio di mia madre, profondamente legata alla sua città, qui sono cresciuto e mi sono formato musicalmente in Conservatorio alla scuola di Vincenzo Vitale. Le radici sono importanti, le radici vere, non il folklore».
Nel nuovo cofanetto lei mette in evidenza il rapporto della Scuola napoletana con Vienna e con Mozart.
«Per cinque anni al Festival di Pentecoste a Salisburgo ho raccontato musicalmente questo percorso per sottolineare quanto il genio di Mozart appartenga alla musica napoletana. Nel suo viaggio in Italia con il padre, l'ultima tappa, la più importante, era proprio Napoli dove il giovane Amadeus fu accolto e riconosciuto come grande talento. Qui incontrò Jommelli che stava scrivendo il suo Demofoonte altra opera che ho messo in scena a Salisburgo - e scrisse tre arie per quest'opera cercando di far colpo sul compositore, all'epoca tra i maggiori».
Jommelli e Mozart sono due mondi che si incontrano?
«Direi che si reincontrano. È un fatto che Mozart e Jommelli si fossero incontrati, io li ho rimessi insieme. Non per fare paragoni, per carità, ma per far capire quanto sia diverso l'approccio. In questo senso la Betulia liberata è un omaggio del giovane Mozart all'illustre collega partenopeo che si era cimentato sullo stesso testo. Certo, non tutto il Settecento partenopeo è fatto di capolavori, ma ci sono centinaia di opere che attendono di essere riprese. Non è un caso che il giovane Mozart cerchi nella capitale musicale del Mediterraneo la linfa di nuove idee che lo porteranno successivamente anche a scrivere il trittico di opere italiane con Da Ponte».
Tra queste il «Così fan tutte» che lei ha scelto di eseguire al San Carlo e poi alla Staatsoper di Vienna in cooproduzione tra Napoli e la capitale austriaca.
«A Mozart ho dedicato gran parte della mia vita, è un autore che richiede una disciplina artistica molto sottile, spero di fare un buon lavoro. A Napoli ho diretto una sola opera, il Macbeth con le scene di Manzù inaugurando la stagione 84-85».
Ora si prepara a tornare con la regia di Chiara.
«Insieme abbiamo fatto la Manon a Roma e la Sancta Susanna di Hindemith a Ravenna, sono sicuro del suo lavoro. E poi questa è un'opera che lei ama molto, è un po' nel suo Dna, come lo è Napoli, visto che è mia figlia».
Lei gira il mondo con le sue orchestre, ma è come se non si fosse mai allontanato.
«Credo che nessun'altra città al mondo abbia un centro artistico paragonabile a Napoli. Sono convinto che anche oggi le risorse ci siano, serve la volontà di metterle insieme».
Come fare?
«Vedo che maturano molte cose. Intanto c'è questo progetto a Capodimonte dove Bellenger sta facendo un ottimo lavoro».
Lei ha scelto un'opera da segnalare?
«Il Crocifisso del Masaccio. Ho anche registrato un video per una app che ognuno potrà rivedere sul telefonino nel quale spiego le ragioni di questa scelta. Il dipinto faceva parte di una pala d'altare per Santa Maria del Carmine di Pisa, dopo molte diatribe è stata attribuita a Masaccio. È una delle opere più preziose conservate nel museo, ma è anche una delle più significative».
Il suo legame con Capodimonte, maestro?
«Beh, ci andavo da ragazzo, all'epoca si teneva una stagione estiva di concerti nel chiostro. Ma anche il parco è una meraviglia, un giorno potrebbe venire di nuovo usato per le feste come ai tempi dei Borbone... Credo sia un luogo dove poter ritrovare grandi valori culturali. Come in ogni cosa a Napoli bisognerebbe mettere di più l'accento sulle cose positive».
Non ama la Napoli di «Gomorra»?
«Io amo ripescare nel passato. Sto rileggendo Napoli 44, il diario dell'ufficiale inglese Norman Lewis da cui Patierno ha tratto un film. Racconta un momento difficilissimo del dopoguerra, ma con uno sguardo di simpatia verso l'inventiva l'arguzia dei napoletani. Come quando, mancando ogni cosa, per preparare un pranzo a un generale cucinarono i preziosi pesci dall'acquario. Insomma, le risorse ci sono sempre, bisogna rimetterle nel piatto».
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Il Mattino