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Il 2020 è stato l'anno del nuovo coronavirus ma potrebbe anche essere considerato l'anno della consacrazione definitiva della cultura pop coreana, oggi tra le più attraenti del mondo. Grazie alla vittoria agli Oscar 2020 di Parasite, capolavoro del regista Bong Joon-ho, il grande pubblico si è accorto del valore delle produzioni coreane. Non è un caso che anche Netflix abbia visto un aumento del 180% di spettatori di serie coreane rispetto all'anno prima. La pandemia ci ha costretti a casa a fare indigestione di serie e film, ma allo stesso tempo ci ha permesso di scoprire mondi lontani, che in alcuni casi abbiamo trovato sorprendenti. Un successo tale da superare anche lo scoglio iniziale della lingua, perché la maggior parte di queste serie tv non è doppiata.
In realtà, è da alcuni anni che il mondo sta assistendo all'invasione di prodotti della cultura pop coreana, dalla musica alla televisione, dal cinema al cibo, dai prodotti per la cura del viso alla lingua. La vendita di noodles coreani ha generato entrate per 413 milioni di dollari nel 2018, mentre, nello stesso periodo, l'industria della k-beauty ha totalizzato più di 6 miliardi di dollari in esportazioni. Un fenomeno noto come "onda coreana", che deve il proprio nome al termine cinese "Hallyu", apparso per la prima volta a metà degli anni Novanta per descrivere la popolarità delle serie tv coreane, k-drama, tra i membri delle comunità cinesi.
Era invece il 1994 quando i consulenti della presidenza sudcoreana per la scienza e la tecnologia pubblicarono un rapporto in cui veniva messo nero su bianco che il film americano Jurassic Park in un solo anno aveva permesso guadagni pari alla vendita di 1,5 milioni di auto Hyundai. Alla fine degli anni Novanta, complice la crisi finanziaria in Asia, l'economia sudcoreana era in ginocchio, così fu chiaro che si dovevano cercare nuove forme di reddito, diverse da quelle legate all'industria pesante. Da molto tempo, dunque, Seoul investe nello sviluppo del cinema, della musica e in generale della propria cultura pop, fino al punto che tali creazioni hanno iniziato a splendere di luce propria. In alcuni casi, come quello di Parasite, sono diventati anche dei mezzi per criticare l'immobilismo e le disparità della società coreana contemporanea.
Solo pochi decenni fa sarebbe stato impensabile trovare maschere per il viso dal packaging irresistibile in ogni negozio Sephora del pianeta, così come sarebbe apparso strano pensare che un gruppo di k-pop come BTS potesse arrivare a scalare le classifiche Billboard arrivando a eguagliare i leggendari Beatles. Eppure, tutto questo è successo e il pubblico mainstream oggi si appassiona alle serie come Kingdom o It's Okay to Not Be Okay, entrambe citate dal New York Times tra le migliori serie del 2020. Nella prima, una serie che mescola il drama storico coreano e lo zombie movie arrivata alla seconda stagione, il principe Chang è chiamato a proteggere il popolo da un'epidemia. Nella seconda, l'amore tra una scrittrice geniale di favole, ricchissima e asociale, e un operatore sanitario specializzato nella cura di pazienti di malattie mentali, con un fratello autistico, farà bene a entrambi. Un successo in Asia e un'ulteriore conferma del soft power di Seoul, una serie che vuole trasmettere un messaggio molto attuale: è okay non sentirsi okay.
Così, Netflix, secondo le stime di Media Partners citate da Bloomberg, per il 2021 vorrebbe raddoppiare il budget per le serie originali asiatiche, elevandolo ad almeno un miliardo di dollari. Dal 2018, Netflix ha investito in questo mercato quasi 2 miliardi di dollari. Intanto, il Ministero dell'Economia sudcoreano prevede per l'anno prossimo di aumentare di una cifra pari a 584.8 milioni di dollari la spesa per la promozione del soft power di Seoul, un incremento del 42.7% rispetto al 2020.
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Il Mattino