Oscar 2023, nella notte del riscatto il cinema volta pagina

Lady Gaga incanta struccata e in jeans: «Abbiamo tutti bisogno di eroi trova il tuo eroe dentro di te»

Ke Huy Quan con l'Oscar
Al di là del red carpet scolorito quest'anno in un pallido beige, oltre le luci accecanti, la musica a palla e le battute politicamente corrette, le feste promozionali...

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Al di là del red carpet scolorito quest'anno in un pallido beige, oltre le luci accecanti, la musica a palla e le battute politicamente corrette, le feste promozionali delle griffe e l'allegria per contratto, che cosa ci dicono gli Oscar assegnati l'altra notte a Los Angeles? Cosa ci raccontano dello stato di salute dell'arte chiave del Novecento stretta tra la crisi delle sale e la prevalenza delle piattaforme?

Le sette statuette a zero di «Everything Everywhere All at Once» dei quasi esordienti Daniel Kwan e Daniel Scheinert, due amici neppure quarantenni dell'università di Boston detti per brevità The Daniels, contro «The Fabelmans» di un mostro sacro come Steven Spielberg, l'unico regista nominato dall'Academy per sei decenni di fila, sono il segnale di una rivoluzione in atto, della ricerca di una nuova identità da parte di un'industria che chiede proprio ai suoi premi più importanti una sorta di pomposa legittimazione.

La vittoria di «Everything Everywhere All at Once» a miglior film, regia, sceneggiatura, attrice (Michelle Yeoh), non protagonisti (Ke Huy Quan e Jamie Lee Curtis) e montaggio è la vittoria di un nuovo linguaggio, più sincopato e frammentario, inesorabilmente influenzato dalla rete e dalla serialità, ma non solo. È l'indicatore di un tempo che vuole correre veloce, assetato di cambiamenti e di opportunità, un tempo che non si accontenta di attraversare il mondo ma pretende di viverne mille, in tutti i multiversi possibili, in una ubriacatura di virtuale e reale che abbatte limiti e confini liberando energie che ci inquietano. 

Il ritmo folle di un film irregolare e divisivo che ha disorientato pubblico e critica opposto alla pienezza sontuosa, toccante, perfino etica del cinema classico, alla raffinatezza dei suoi codici per sempre vivi (che cos'altro è la lezione sull'importanza dell'orizzonte in un'inquadratura impartita da John Ford al giovane protagonista nel finale di «The Fabelmans»?) ci dice di un cambiamento in atto, così come le trenta nomination andate a vuoto di quest'ultimo film e di «Elvis», «Gli spiriti dell'isola» e «Tàr» descrivono la fase di transizione attraversata dall'Academy che, negli ultimi anni, ha rinnovato gran parte dei suoi membri, aprendosi all'inclusività e all'integrazione ma anche al cinema di genere: da qui le candidature di «Top Gun: Maverick» e «Avatar: la via dell'acqua», i due kolossal che hanno salvato il cinema in sala eppure hanno ottenuto un solo premio tecnico a testa, tant'è che James Cameron, «mister due miliardi di dollari», ha disertato polemicamente la cerimonia.

Snobbati i grandi divi come la divina Cate Blanchett, Colin Farrell e la favorita nella sua categoria Angela Bassett (che infatti ci è rimasta malissimo), tra le attrici e gli attori si sono imposti gli outsider di lusso: la malese Michelle Yeoh, la prima asiatica a vincere tra le protagoniste, e Jamie Lee Curtis, migliore non protagonista, figlia dell'aristocrazia hollywoodiana (Tony Curtis e Janet Leigh), entrambe veterane dei film di genere, entrambe sessantenni (Yeoh sul palco: «Signore, non permettete a nessuno di dirvi che avete superato l'età per sognare»); e poi Ke Huy Quan, l'immigrato vietnamita internato nei campi profughi e finito nel dimenticatoio dopo l'esordio in «Indiana Jones e il Tempio maledetto» e nei «Goonies», che ora, con la statuetta per il non protagonista tra le mani, si sente «l'incarnazione del sogno americano».

Di questi 95esimi Oscar resteranno le sue lacrime e la commozione di Brendan Freser, il gigantesco Charlie di «The Whale» caduto in disgrazia dopo «La mummia» e ora grato al suo regista Aronofsky per averlo salvato, e la parola non è usata a caso. Riscatto, integrazione, seconde possibilità: gli Oscar 2023 si mettono sulla strada aperta dal trionfo del coreano «Parasite» del 2020 e dal road movie «Nomadland» della cino-americana Chloe Zhao del 2021. Puntano sul cinema indipendente come nel 2022 con «Coda», scommettendo sui Daniels e sul loro mix survoltato di avventura, azione, sci-fi, comedy, dramma familiare con protagonista una donna immigrata che sbarca il lunario in una lavanderia e non sa come pagare le tasse (non a caso la dedica di Yeoh è andata a tutte le mamme, «le vere eroine dei nostri tempi con il superpotere dei sentimenti»).

L'Italia candidata con il bel corto di Alice Rohrwacher «Le pupille» e con l'hairstylist di «Elvis» Aldo Signoretti, esce purtroppo dalla gara a mani vuote. «Everything Everyehwre At all Once», che ha incassato più di 110 milioni di dollari sul mercato americano, torna nelle nostre sale distribuito da I Wonder. L'altro trionfatore della serata, il tedesco «Niente di nuovo sul fronte occidentale», livido apologo sulla ferocia della prima Guerra mondiale oggi tragicamente attuale per il conflitto in Ucraina, miglior film internazionale e vincitore di altre tre statuette tecniche, è uscito direttamente su Netflix. Nel desiderio di tenersi fuori da ogni polemica dopo lo schiaffo in diretta di Will Smith a Chris Rock, l'anno scorso, l'Academy ha rifiutato per la seconda volta l'intervento registrato del presidente ucraino Zelensky. Ma la politica si è presa i suoi spazi con il premio al documentario su Navalny, il principale oppositore di Putin, ora in carcere e rappresentato sul palco con parole commosse dalla moglie Yulia.

Arrivata a sorpresa inguainata in uno scenografico abito Versace, Lady Gaga si è presentata sul palco in jeans e maglietta, struccata, cantando una straordinaria versione di «Hold my hand», candidata per «Top Gun: Maverick». Prima di cominciare ha detto: «Abbiamo tutti bisogno di eroi, trova il tuo eroe dentro di te». Ha vinto l'esuberante brano indiano «Naatu Naatu», ma lei si è presa la serata.

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Il Mattino