Paky da Secondigliano a Rozzano: le periferie da classifica

Paky da Secondigliano a Rozzano: le periferie da classifica
Vincenzo Mattera, classe 99, ha lasciato Secondigliano quando aveva 10 anni. Periferia per periferia, si è ritrovato a Rozzano, dov'è nato Biagio Antonacci,...

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Vincenzo Mattera, classe 99, ha lasciato Secondigliano quando aveva 10 anni. Periferia per periferia, si è ritrovato a Rozzano, dov'è nato Biagio Antonacci, «Rozzi» in un suo brano del 2019, hit urban e inno per l'Italia dell'hinterland, non solo milanese. Il nome d'arte, Paky, deriva dal lituano «pakartas», ovvero «impiccato»: «Così sono finiti mio zio e mio nonno, dovevo portare questa storia sulla pelle», spiega il ragazzo.

Fin qui la storia potrebbe essere quella di un'ordinaria street credibility, non fosse che con il suo album d'esordio, «Salvatore», Paky è in cima alla lista dei dischi più venduti in Italia e, nelle prime 72 ore dopo l'uscita, è stato al n. 2 degli album più ascoltati nel mondo su Spotify, cosa successa finora nell'hip hop di casa nostra solo con Gué e Noyz Narcoz.

Voce di Rozzangeles (copyright Jonathan Bazzi) nata a Secondigliano, e si sente, nei diciassette brani di un disco amaro, feroce, crudele, nel suo flow cita il Tmmy Riccio di «Nu latitante» e fa il macho prendendosela con una «puttana straniera». Quando Paky dice che «Rozzi» è il Bronx del Nord è perché sa di venire dal Bronx del Sud, quello ribattezzato dal migliore Peppe Lanzetta.
Droghe, violenze ed armi ci sono (un brano dal sapore soul come «Mama I'm a criminal» la dice chiara), griffe e marche di moda no: «Un vero ghetto boy non sta su internet» rappa lui in «Blauer». Nelle piazze, non solo di spaccio, del Bronx del Nord il napoletano è una lingua di casa. Ecco, allora che tra le collaborazioni - davvero si deve dire per forza «featuring»? - ci sono Marracash, Guè, Shiva ma anche i veracissimi contributi di Luche' e Geolier.
Il titolo, riferimento a un altro zio perso, stavolta in un incidente racconta il rapper, è slam poetry accorata, una dedica, un richiamo ai sentimenti (familiari) che altrimenti sembrerebbero assenti, soffocati dal risentimento, la rabbia, il rancore, il cinismo indossato come una corazza, l'attacco scatenato come difesa preventiva. «Salvatore» divide il disco in due parti, la prima più leggera, «banger» e luminosa (ma si fa per dire), un'altra più «conscious» e buia, «una in cui sono vivo e un'altra in cui non lo sono», dice lui che si è fatto tatuare sulla bocca dello stomaco due parole: «Morto dentro». Una sua telefonata avrebbe distratto dal volante lo zio, lasciando dentro al ragazzo un senso di colpa, un vuoto incolmabile.

Un terzo zio di Paky è stato ucciso (di lui racconta in «Quando piove») il giorno in cui lui ha iniziato a rappare. Autofiction? Esagerazioni? Eppure Paky intende il rap come racconto della sua storia «tra fama storia e gloria».
Le radici vengono a galla nel confronto con Geolier, che viene dal suo quartiere, in «Comandamento»: «Pecché me guarde male?/ Saccio comme si crisciuto tu/ cu nu pate che sta carcerato/ e nu frate che nun ce sta cchiù.../ Cierti ccose e ssaje a tant'anne fa/ però è certo nun t''e mpara nisciuno». Luche' («Voglio che portate Luca al mio funerale») divide «Giorno del giudizio» anche con Mahmood.

L'exploit in classifica dice dell'attesa che c'era in giro per «Salvatore», dell'hype seminato nella comunità urban dai primi passi di Paky, non può essere spiegato con numeri relativamete bassi visto il piazzamento su Spotify, unico prodotto italiano nella solita top ten internazionale (al primo posto c'era «7220» di Lil Durk, al terzo «Who cares?» di Rex Orange County), forte delle produzioni di Drillionaire, Sick Luke, Night Skinny, Andry The Hitmaker, 2nd Roof e Kermit.

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Il Mattino