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«I maestri si uccidono, come i padri» ha scherzato l'ottantunenne Antonio Capuano con un sorriso appagato fissando con affetto l'«allievo» Paolo Sorrentino, 51 anni, al suo fianco al cinema Troisi ieri a Roma per inaugurare una retrospettiva dedicata ai suoi film cominciata con «Polvere di Napoli», film del 1998 che Capuano scrisse insieme al ventottenne Sorrentino che all'epoca si guadagnava da vivere scrivendo puntate di «La Squadra» per Raitre.
«Io l'ho ucciso e poi l'ho risuscitato» ha risposto con altrettanto affetto il regista di «La grande bellezza», riferendosi all'omaggio fatto al suo maestro nel finale dell'atteso «È stata la mano di Dio», scelto per rappresentare l'Italia agli Oscar, in sala dal 24 novembre e su Netflix dal 15 dicembre: «Sicuramente non gli piacerà, l'ho reinventato. L'ho rappresentato come lo percepivo, non c'era. Non mi importata di farne una copia. L'originale è meglio della copia», ha detto, alludendo al ruolo affidato a Ciro Capano.
«Non ho ancora visto il film. Lo voglio vedere al cinema» ha sottolineato Capuano, meravigliato dalla scelta di Sorrentino di girare un film nei luoghi della sua giovinezza: «Non me lo aspettavo che Paolo facesse un film così reale, sui posti e le persone che hanno segnato parte del suo itinerario. Avrei voluto scriverlo con lui, ma lui non me lo ha chiesto. Ma se mi avesse chiesto di recitarci non l'avrei fatto. Non avrei mai recitato me stesso. Non so muovermi!», ha esclamato il cineasta ricordando le passeggiate fatte insieme al suo allievo 23 anni fa su via Caracciolo con innumerevoli pause caffè: «Erano le nostre sedute di sceneggiatura. Lo conobbi proprio perché avevo letto una sua sceneggiatura, Dragoncelli di fuoco, che mi era piaciuta e in un bar e gli avevo proposto: Paolo facciamo questo mio film insieme».
«Io resto il suo sceneggiatore e gli sono grato», ha sottolineato Sorrentino, «Antonio non è accomodante, non ti lusinga, anzi ti mette a dura prova.
I film di Capuano, infatti, raramente hanno trovato nella distribuzione lo spazio che meritavano, da «Vito e gli altri» a «La guerra di Mario». Ha affrontato spesso temi scomodi, come la camorra in «Luna rossa» (2001): «L'ho girato perché mi fanno schifo i camorristi, invece il pubblico ha schifato il film» ha detto con tono scherzoso che in attimo è più diventato più serio: «Luna rossa è stato sotterrato dai fatti. È normale, è giusto che tronfi Gomorra che è diventata la cartolina di Napoli ed è orribile: il libro era bello, ma già nel film non c'era più il dolore di Saviano, la sua invettiva. I ragazzi ora parlano e si comportano come la gente di Gomorra».
«Quando si fa un film, bisogna essere allegri e rigorosi potrebbe essere il motto del maestro Capuano. Nel mestiere del cinema, come nella vita, infatti, «si gioca e il gioco è una cosa serissima e fondamentale. Lo sanno bene i bambini che sono dei grandi giocatori. Trovo invece che tutti quanti noi siamo orrendi, recitiamo e male. Al cinema italiano mancano l'allegria e il rigore. Quando si gira un film», ha concluso trovando d'accordo anche l'«allievo», «non bisogna pensare al pubblico. La massima forma di rispetto del pubblico è non considerarlo mentre si gira il film. Non servono finzioni né ruffianeria. L'unico pubblico affidabile sei tu, poi va come va».
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