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Settembre non verrà. Se n'è andato Peppino Gagliardi, leone della vecchia guardia napoletana, 83 anni compiuti il 25 maggio. Quando ne compì 80, in pieno lockdown, minimizzò come uno scugnizziello, come lo scugnizziello che era rimasto, nonostante l'età, nonostante la scelta di vivere a Roma: «Diciamo che faccio due volte 40 anni, ma in euro sono la metà, come rispetto alla lira. E avrò 18 anni fino alla fine».
«Ho avuto un'infanzia spensierata nella zona di piazza Carlo III fino ai 13 anni, poi mio padre fallì e io mi ritrovai a imbracciare la fisarmonica, allora più grande di me anche se non è che poi sia molto cresciuto, e a suonare a matrimoni, cresime comunioni», ricordava. Lo chiamavano «il maestrino», alcuni orchestrali lo ascoltarono per caso e si presentarono alla madre: «Ce lo prendiamo noi, lo portiamo con noi, ma poi ve lo riportiamo a casa. E lo paghiamo pure». Povera donna: «Ma veramente lo pagate?», chiese. E lo pagarono, davvero: «il ragazzo con la fisa» si fece le ossa nei night, nei ristoranti, nelle cerimonie. Poi, quando tutto stava per finire, faceva un po' di musica come piaceva a lui: «A fine serata, anzi nottata, quando tutti stavano andando via, cantavo qualche pezzo, giusto per noi, cose come "Chiove", avevo già uno stile tutto mio, personale. E succedeva che le entreneuse mollavano tutto, compresi i marinai americani che stavano circuendo, per sedersi ai miei piedi ad ascoltarmi. Il padrone del locale notò il fatto e mi chiese di cantare anche per il pubblico», raccontava.
L'esordio discografico, nel 1962, non fu di quelli epocali, di «'A voce e mammà» si ricordano in pochi. Lui ascoltava Ray Charles e Joe Tex, ma anche i grandi cantautori francesi, aveva dentro la melodia partenopea classica e nel 63 sfornò «T'amo e t'amerò», ritrovandosi al centro di tutto: «Camminavo per via Toledo e da tutti i negozi si sentiva la mia canzone.
Lo dissero «cantore dell'amore nevrotico» perché era difficile definire le sue composizioni, il suo canto insieme melodico e innovativo, nasale, dalle sonorità pastose, frutto di una voglia di nuovo che non rompeva con la tradizione.
Ma Peppino voleva di più e, nel 1974, musicò gli amati poeti napoletani (Ferdinando Russo, Salvatore Di Giacomo, Eduardo Nicolardi, Ernesto Murolo, E.A. Mario), per un album a suo modo storico come «Quanno figlieto chiagne e vo' cantà, cerca int'a sacca... e dalle a libbertà!»: «Io la libertà l'ho data ai miei figli, insieme al senso del rispetto, del dovere e all'amore per la musica, che è, forse, la forma suprema di libertà, ma anche di schiavitù», diceva sorridendo guardando Max e Davide, che lo hanno visto andare via negli ultimi giorni, dopo aver sofferto di complicazioni respiratorie.
Piccolo grande uomo, quando, dopo gli anni 80, capì che il mondo della musica era cambiato e non c'era più spazio per il suo stile da chansonnier verace, si era ritirato con rare ri/apparizioni, trovandosi sempre più a suo agio dietro una tastiera o con una fisarmonica che in tv: «Non li capisco proprio quei colleghi che accorrono al primo revival possibile». Amava ricordare quando aveva suonato con Maurizio e Guido De Angelis, Tullio De Piscopo, Stelvio Cipriani, il non ancora premio Oscar Bill Conti, Pino Calvi, Daniele Sepe. Chissa cosa vuole questa musica stasera senza di lui.
Ciao, Peppino ciao, e grazie.
Il Mattino