Pino Mauro e la «nuttata» della canzone napoletana

A 84 il leone di Villaricca sfoggia al Trianon una voce sicura

Pino Mauro
È un atto carbonaro di resistenza - si vabbè, mo’ va di moda dire resilienza - il sedere in platea al Trianon in una delle due serate riservate a Pino Mauro....

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È un atto carbonaro di resistenza - si vabbè, mo’ va di moda dire resilienza - il sedere in platea al Trianon in una delle due serate riservate a Pino Mauro. Peraltro ripagato dalla voce del leone di Villaricca, l’ultimo storico protagonista di cantaNapoli, che a 84 anni è sicura, calda e corposa come un tempo, modulata con saggezza anche nel modo di porgere parole e note. 

Lo spettacolo, parte con «Nuttata ‘e sentimento», la perla di Capolongo/Cassese del 1908 a cui deve il titolo, e procede senza inseguire cronologie, in un racconto della storia della canzone napoletana che è mero pretesto, spesso retorico, per lasciare campo libero al protagonista. E ai suoi hit personali: «Ammore amaro» (Gennaro Carbone-Felice Genta, audizioni Piedigrotta Giba del 1957), «’O bene mio» (Pino Mauro-Vincenzo Correale, 1981) e soprattutto «Nun t’aggia perdere» (Moxedano-Iglio, 1976) hanno resistito al tempo meglio di «Ciao» e «’O motoscafo» e ci raccontano quella stagione veteromelodica che cercò di non pagare troppo pegno all’impeto modernista che travolse, anche giustamente, il paese per vecchi di cantaNapoli, orfano del suo festival, come di guide illuminate. Tra revival della canzone di giacca e della sceneggiata, tra gli anni ‘70 e gli ‘80, i due eterni rivali Mauro e Merola si trovarono al microfono per materiali di pronto consumo, ma anche con pezzi che hanno resistito all’usura del tempo e delle mode, che sono stati ripresi, rivisti e (s)corretti da nuove generazioni artistiche.

Pino impagina i suoi cavalli di battaglia tra «Era de maggio» e «Napule è», «Passione» e «Caruso», il Carosone più melodico e melanconico di «T’aspetto ‘e nove» e lo spot antelitteram di «’O pizzaiuolo nuovo» (Capurro/Gambardella, 1896). Più degli arrangiamenti conta il suo canto, il suo pugno chiuso per accompagnare un fonema che si spegne, una storia che finisce, una melodia che evapora. Conta l’interpretazione che sa liberarsi di ogni oleografia e retorica passando dai melodrammi di Bovio alle elegie di Di Giacomo, dalle storie di cronaca e contrabbando a quelle di amore tossico, non sempre machiste e maschiliste come si vorrebbe far credere. «Nun t’aggia perdere» racconta in presa diretta la sconfitta del maschio padrone: «Ce sta n’ato, 'o saccio ggià». Certo, «chesta vocca/ è sultanto d’’a mia/ o ‘e nisciuno dimane sarrà», ma è una spacconata da innamorato perso, prigioniero di «’na freva che nisciuno po’ sana’». 

La resistenza che unisce palco e platea è, allora, quella di una canzone non omologata, verace, mai pura e purista, contaminata, eppure radicata nella terra e nella cultura in cui è nata. Canzone di amori amari quanto sensuali, come ricorda anche la carnalità della narratrice Rosa Miranda che si concede una «Tammurriata nera» tra storie di Madonne e di puttane. 

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Il Mattino