Dopo il bel libro di Riccardo Rosa «La sfida» e prima dell’annunciato docufilm di Carlo Luglio e Fabio Gargano, il processo di sdoganamento di Pino Mauro...
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Il silenzio massmediatico che ha accompagnato la recente morte di Mauro Caputo spiega quanto, ancora oggi, la canzone napoletana popolare sia guardata dall’alto in basso dalla presunta intellighentia partenopea e perché operazioni del genere siano necessarie.
Come conferma dal vivo ogni volta che gli è possibile, Giuseppe Mauriello (così all’anagrafe), classe 1939, ha tuttora una cifra vocale profonda, verace, ombrosa, che confessa di aver vissuto sfidando tutti e tutto, come in una dolorosa autobiografia travestita dietro smargiassate di facciata. Qui, quasi sorpreso da tanto affetto, Pino lascia quasi che a fare siano gli altri, una compagnia più che mai assortita: si va da Barbara Bonaiuto a Enzo Gragnaniello, da Raiz a Mauro Gioia, dalla tunisina vesuviana M’Barka Ben Taleb al rapper Lucariello, dai prog rocker Osanna a Franco Ricciardi, da Nello Viviani e Cristian Vollaro a Valentina Stella, con il contorno di musicisti del calibro del compianto Fausto Mesollella, di Daniele Sepe, di Massimo Volpe (al centro degli arrangiamenti), della Uanema Orchestra, di Tony Cercola, di Massimiliano Sacchi, di Ciro Riccardi, di Marco Zurzolo.
Inevitabilmente, le ugole più carnali - Gragnaniello, Raiz, Ricciardi - esaltano i materiali affrontati e da essi sono esaltati. Inevitabilmente, le canzoni di passione (soprattutto «Amore amaro» e «Nun t’aggia perdere», che nella versione francese della Ben Taleb diventa una perla in stile neapolitan exploitation da esportazione, ma anche «’O bene mio») battono le canzoni di cronaca e di mala, che pure reggono l’usura del tempo: «Malufiglio», «’O motoscafo», «L’avvertimento», «Calibro 9» («’e colpe e’ sta pistola, o ssaje che so’? Cunfiette ‘e sposa», roba che se la sentisse Tarantino...), «Pucereale amaro» con un cameo iniziale di Renzo Arbore.
Ma al centro di tutto rimane lo scabroso carisma, canoro ma non solo, di Pino, la sua appartenenza a una Napoli, e alla sua canzone più sanguigna, che dovrebbe essere estinta da tempo, ma che invece trova nella sua ugola una sorta di oasi da Wwf, che non appare intaccabile dai nipotini modernisti che aggiungono declinazioni prog, rap, jazz, urban a una scrittura in cui il dominio melodico è assoluto. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino