«Sì, credo nel destino. Nulla accade per caso. Io non so se c'è qualcuno che diriga dall'alto, o qualcosa di già scritto, ma tante coincidenze...
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Salvatore perché questa storia di un ragazzo di Mugnano, che ha sfiorato la malavita per finire a rappresentarla in una fiction famosa nel mondo?
«In questi ultimi anni ho incontrato tanti ragazzi di periferia come me. Volevano fare gli attori. Tutti mi chiedevano non chi fosse Genny, ma Salvatore. E quando io raccontavo, quasi non mi credevano. Così, mi sono deciso a scriverla questa mia vita così rara, per spingerli a inseguire i sogni, per convincere le famiglie a credere in loro. L'ho raccontata per dimostrare che un ragazzo normale, con genitori normali, nato in una delle tante zone pericolose e dimenticate del mondo, può farcela. Questo libro vuole portare un messaggio positivo e dare senso a una domanda antica ed eterna: ma i sogni resteranno per forza sogni? Non volevo diventare un boss contiene la risposta. Ed è dedicato a tutti i giovani che vogliono diventare non solo attori, ma calciatori, astronauti, o chi sa chi».
Lei scrive: «Si può anche giocare al cattivo tenendo, però, sempre il timone puntato in direzione del bene». Chi deve ringraziare per l'aiuto ricevuto?
«Mio padre barbiere, mia madre, i fratelli. Con sacrifici, comprensione, fiducia mi hanno permesso di affrontare i provini e i colloqui con la forza che altri non avevano; di scegliere tra una vita da delinquente e la sua alternativa. In periferia è troppo facile, se non hai una buona famiglia alle spalle, essere risucchiati dalla vita storta. E io, soprattutto da bambino, ero solare, intraprendente, ma anche sbruffone, tirannico, e quando c'era da fare a botte, non mi tiravo indietro».
Il resto l'ha fatto lei. Colpisce una sua risposta al regista Stefano Sollima, che al debutto sul set le chiese: «Sei pronto?». E lei: «Io sono sempre pronto».
«Lo sono. Lo ero. Anche quando lasciai un buon lavoro da McDonald per andare a Roma e studiare recitazione. Risposi così non per arroganza, ma sapendo che se volevo intraprendere una nuova strada, dovevo farlo al meglio. Per essere pronto. Dunque, studiare, studiare, studiare. Con la preparazione avrei fatto la differenza. Non bisogna lasciare nulla al caso. Il caso ti fa vincere il superenalotto; lo studio, il sacrificio aiutano il destino a compiersi. Dopo duemila provini per scegliere il volto di Genny, arrivai io, che al principio avevo soltanto il compito di dare le battute a chi li faceva. Alla fine siamo rimasti in due. E hanno scelto me perché ero più preparato; riuscivo a interpretare entrambi i volti di Genny, prima e dopo il viaggio in Costa Rica, dove si rivelò il boss che era in lui».
Quando ha scoperto che le piaceva recitare?
«Quel sottile brividino... Avevo sei, sette anni, in un villaggio turistico gli animatori preparavano uno spettacolo su Fred Buscaglione, io giravo intorno al palco in bici, senza avvicinarmi. Mi videro: Perché non vieni anche tu?. E io: Sì, ma voglio fare il protagonista. Stare in scena, o sul set ha un fascino misterioso, è un brivido sottile, la sensazione bellissima di riuscire ad attirare l'attenzione di tutti».
Le persone che hanno cambiato la sua vita?
«Oltre alla famiglia, il regista Stefano Sollima e la mia insegnante di recitazione, Beatrice Bracco. Un giorno mi disse: Non esistono bravi attori, ma brave persone. Per arrivare al cuore della gente devi avere un'anima bella. Se sei onesto con te stesso, lo sei con chi ti guarda. Anche rendendo credibile un mostro come Genny Savastano».
E non la spaventa?
«Gomorra racconta qualcosa che conosciamo da anni. I ragazzi che sparano sono nati prima. C'è un problema di fondo che va al di là del cinema e della tv. È là che bisogna intervenire».
Fame e fama. Prima non andava in pizzeria perché non aveva i soldi; ora la evita per l'assedio dei fan. Lei non mangia più pizze?.
«Solo quelle congelate... No, no. Non vado in pizzeria anche perché tutti voglio offrirmi qualcosa, mentre cacciano chi non può comprare neppure una Margherita».
Nel libro scrive che le piacerebbe il ruolo di Nennillo in «Natale in casa Cupiello».
«Vero. Ma il teatro è un santuario. Richiede estrema cura, passione e tempo. Non è il mio momento. Lo rispetto troppo».
Le dà fastidio la fama?
«Solo quando l'affetto diventa invadenza e maleducazione. Qualche mese fa ero al funerale di mia nonna e i becchini che portavano la bara mi hanno chiesto i selfie. Con l'ignoranza al potere, la società decade».
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Il Mattino