Ora lo danno favorito anche i bookmaker, all'indomani della prova dell'inedito ha conquistato il primo posto sulla lavagna del vincente di Stanleybet.it: la sua vittoria...
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Poi, ieri, è arrivato il beat di Don Joe, sì proprio quello dei Club Dogo e... «Aspetta... non sono pronto ancora, guarda ho ancora l'etichetta, non so andare in bicicletta o fare i cento all'ora. Mai corso una maratona, superato ostacoli, non ho mai visto il Napoli di Maradona», quasi a ribadire le radici, e le ali, del ventunenne rapper di Meta di Sorrento, che tra gli scognomati di «X Factor» ha scelto di chiamarsi con il cognome (di nome fa Marco). Tifosissimo, oggi chiama in ballo santo Diego da Lanus. Ieri, quando si era ribattezzato Nasta, aveva dedicato un flow fichissimo al subcomandante Sarri che, in compenso, lo aveva invitato a Castel Volturno e gli aveva autografato una sigaretta che è il suo cimelio portafortuna.
Chissà se lo aveva in tasca ieri mentre rappava «La fine del mondo», seduta di autoanalisi con confessione di disagio di fronte alle scelte quotidiane, perché, in fondo, è più facile andare al massimo che al minimo, o comunque mantenendo le distanze di sicurezza. «Ho le licenze scadute da un pezzo, quella poetica da rinnovare o levare di mezzo. Abbatto la clessidra orizzontale per fermare il tempo a patto che smettiate di soffiare per cambiare il vento», ha convinto al microfono, tra minime concessioni alla trap dilagante ma, soprattutto, adesioni all'antica filosofia rockettara secondo cui «è meglio bruciare che spegnersi lentamente». Quello era il maestro Neil Young, lui da allievo che ha studiato, o comunque è ispirato, la mette giù così: «Io sono stanco delle cose normali, io non ho tempo per le cose normali e di certo non mi alzo dal letto per cose normali... Io mando giù l'arsenico, non lascio manco più le goccioline, Xanax come noccioline e pare da rimpicciolire. E sogno un mondo che finisca degnamente che esploda, non che si spenga lentamente».
Qualcuno protesterà per lo Xanax del testo, ma rispetto ai versi dei rapper/trapper in circolazione è roba da educande, Anastasio le immagini distruttive le capovolge velocemente: «Io sogno i led e i riflettori alla Cappella Sistina, sogno un impianto con bassi pazzeschi. Sogno una folla che salta all'unisono fino a spaccare i marmi, fino a crepare gli affreschi. Sogno il Giudizio Universale sgretolarsi e cadere in coriandoli sopra una folla danzante di vandali. Li vedo al rallenty, miliardi di vite mentre guido il meteorite sto puntando lì».
Favorito davvero, allora? Stabilito che al talent show di Sky più che vincere (Licitra chi?) conta partecipare bene (i Maneskin insegnano), Anastasio sta conquistando consensi tappa dopo tappa e nella serata degli inediti ha fatto la differenza il suo essere davvero un autore, a differenza di gran parte degli altri ragazzi, i cui talenti vocali sono stati ancora una volta imbrigliati da pezzi senza nè arte nè parte, inevitabile approdo di un meccanismo che privilegia sino a questo punto ugole e personalità per chiedersi solo quando è troppo tardi: ma io a questo/a/i qua che gli faccio cantare quando finisce il gioco comodo delle cover?
Anastasio, invece, proprio «Come Maurizio Sarri», continua la sua scalata dal basso, mentre da casa gli raccomandano di tenere i piedi per terra: lui è diplomato all'istituto agrario di Portici, papà e nonno sono avvocati, lo zio Ernesto è giudice penale presso il tribunale di Santa Maria Capua Vetere. E lui fa il rapper, ma senza machismo, senza gioiellazzi, senza troppi tatuaggi, senza fingersi ragazzo di strada. Fedez ammette: «Per rap serve solo una penna autentica, e lui ce l'ha». Mara Maionchi, che ha scommesso su di lui sil dal primo momento, inizia a fare un pensierino per la vittoria. E se non succedesse non sarebbe «La fine del mondo», Anastasio ha le idee chiare: pensate che il brano dell'altra sera è quello con cui si è presentato alle selezioni. Un'autocover, ancora una volta sparigliare tutto, anche il meccanismo. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino