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Vincenzo Mollica ha scoperto a sette anni che sarebbe diventato cieco. «I miei mi avevano portato a fare una visita in un comune chiamato, pensa tu, Ardore. Si erano accorti che qualcosa non andava, dall’occhio sinistro non vedevo». Nell'intervista al Corriere della Sera rivela che i genitori erano rimasti nello studio del medico e lui nella sala d’attesa, ad origliare. Senti distintamente: “Devo dirvi che vostro figlio diventerà cieco”.
L'infanzia
Nato vicino a Modena, si è subito trasferito in Canada. «Lì ho fatto la prima elementare. Avevo una bicicletta con cui giravo per Toronto. Un immigrato triestino mi insegnò a far rimbalzare le pietre piatte sulla superficie dell’Ontario. Mia nonna era cuoca nella mia scuola, ricordo che andavamo insieme con l’autobus e mi facevano sedere, con mio grande orgoglio, vicino all’autista. I miei genitori si separarono. Mio padre l’ho conosciuto, la prima volta, quando avevo sette anni».
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L'incontro con il padre
Quando ha conosciuto il padre? «Arrivammo con una nave a Napoli, mia madre e io.
La passione per il disegno
«Nella mia stanzetta, mentre registravo con il Geloso le canzoni del Disco per l’estate trasmesse alla radio, riempivo fogli e fogli con gli acquarelli. Volevo riprodurre la realtà, o la mia immagine della realtà. Cercavo il giusto rosso per le foglie d’acero in autunno e prediligevo l’Indian Yellow, che si trova in ogni cosa abbia disegnato. Era il predominante delle mie scelte cromatiche. Per Tamara De Limpicka era il bianco, per Caravaggio il nero. Per Vincenzo Mollica bambino e adulto è stato quel giallo, che mi ricordava la luce del Canada. Ma il mio sogno, non esaurito, è sempre stato riempire il mondo di colori. Mi davano gioia. Mi danno gioia. Anche ora che li ho solo nella memoria».
La malattia
La cecità è stato un problema. «Fin da allora ho adottato una tecnica. Ho mandato a memoria tutte le strade, tutte le stanze, tutti gli alberi. Li so, per averli visti. Per verificare chiudevo l’occhio destro e controllavo se la mia memoria aveva immagazzinato tutto. A Sanremo o a Venezia mi bastava uno sguardo per fare una panoramica di luoghi e persone. Ho sempre scritto tutto a mano, ma negli ultimi anni non ho più potuto farlo. Così gli articoli ora me li compongo nella testa, come fosse un foglio bianco. Voglio sentire, in qualche modo vedere, le lettere che si assemblano: la forma austera della B, il carattere sbarazzino della T. Per tutta la vita ho sempre girato con un bloc notes nella tasca. Ogni tanto, infatti, Alda Merini mi telefonava per dettarmi una delle sue poesie. E io dovevo essere pronto per trascriverla». Cosa gli manca? «Mi mancano i volti di mia moglie, i suoi occhi azzurri e il suo sorriso, mi manca il volto di Caterina e la sua luce».
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