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Quello che il cinema non ha dato a Cervantes, si è realizzato a Cagliari, con i suoi mulini edificati da Walter Mazzarri e alimentati dall’impetuoso Maestrale – citofonare David Ospina – e un Don Chisciotte nero: Victor Osimhen. Quando tutti erano smarriti, dal modulo scelto da Luciano Spalletti e poi abbandonato a una delle tante folate di vento, e dall’oppressione mazzarriana, Osimhen e il suo Sancho Panza, il piccolo Mario Rui, tenevano in piedi l’utopia della vetta della classifica. Una pagina di romanzo, che sovvertiva il wrestling tecnico praticato dal Cagliari, una gabbia organizzata sulla fisicità che impediva al Napoli di palleggiare e di dominare il ritmo della partita. E col passare del tempo, gabbia, mulini, e fisicità sembravano avere la meglio, almeno fino all’ingresso del nigeriano e alla chiamata di Mario Sancho Rui Panza.
La verità è che l’attacco del Napoli senza il ChisciottOsimhen era smarrito, e i risultati erano effimeri nonostante il peso di Petagna. L’ingresso dell’attaccante nigeriano, invece, scompiglia più del Maestrale, e porta il pareggio al Napoli, un gol insperato, che lo tiene attaccato alla vetta, anche se con meno entusiasmo della vigilia.
Porta il sogno ChisciottOsimhen, accompagnandolo con le giuste movenze e la forza per andare a saltare su un cross di Mario Sancho Rui Panza – come credere a Putin che promette a Macron di non attaccare –, con l’incoscienza canaglia di chi è grossolano ma infallibile, magari ancora stropicciato e con la maschera sul viso – nero su nero, non macchia va subito via – ma sicuramente in possesso dei numeri giusti per potersi caricare il Napoli sulle spalle, proprio nel momento del maggiore smarrimento della stagione. Senza il suo gol, la squadra sarebbe arrivata alla partita col Barcellona logorata dal rimorso di aver mancato ancora una volta l’occasione giusta, di aver perso l’ennesima possibilità, così fa due giorni da orsacchiotto e due da leone sperando di mangiarsi Xavi e i suoi calciatorini del futuro. ChisciottOsimhen danza tra i desideri e difese, salta come Gimbo Tamberi a Cleveland sul pianeta della Nba, e porta con sé il Napoli, lo tiene in alto, e tiene pure aperta la possibilità e le opportunità che procurano smarrimento e troppa gioia con rimandi lontani.
Non prevede limiti il suo mondo, conduce allo sfiancamento e alla febbre, alla faccia spaccata e al fiato tagliato, un calcio selvaggio e bambino, che si smarca dalle linee difensive e dalla mediocrità di chi si accontenta. Non ha responsabilità se non del gol, strattona il corpo, corre, si dimena, tira appena ne ha la possibilità, appellandosi alle profondità insondabili della struttura psichica – che per dire Malcuit nemmeno sa che esistano – e cerca di essere sempre in area per cannibalizzare ogni pallone, a prescindere dai gol, è quello che ogni squadra vorrebbe.
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Il Mattino