Fare il tecnico del Napoli è un mestiere affascinante e complesso. Se n'è accorto in questi giorni Sarri, passato dai meritati elogi per la lezione di calcio e i...
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Il presidente ha voluto Maurizio nella primavera 2015, dopo la separazione da Benitez e la chiusura di un progetto di internazionalizzazione, di fatto mai decollato, che aveva comunque portato due coppe in bacheca. Aveva tentato per Unai Emery, vincitore di tre Europa League alla guida del Siviglia, poi l'impraticabilità dell'operazione lo aveva spinto verso il 56enne ex bancario con alle spalle tanta gavetta e un solo campionato in serie A, oltre a quella bocciatura decisa da Berlusconi per la panchina del Milan, perché il figlio dell'operaio dell'Italsider di Bagnoli indossa la tuta a bordocampo e ha idee comuniste. Dopo l'ottimo primo campionato, Sarri ha convinto De Laurentiis a modificare i termini del suo contratto: non più aggiornabile stagione dopo stagione, ma quadriennale. Un impegno a lungo termine, un progetto esaltante con aspettative elevate. C'è stato il crac di Milik ed esiste una sola strada per ridurne il negativo effetto: migliorare la generale condizione attraverso i cambi e ritrovare la vera espressione del gioco sarriano.
Duro il mestiere dell'allenatore a Napoli. Sei quelli che ha ingaggiato De Laurentiis, diventato il patron del club dopo il fallimento del 2004. Il primo momento di quella gestione in cui «non c'erano palloni e magliette», rievocato in tante interviste, è stato vissuto con Ventura, l'attuale ct della Nazionale. Una manciata di partite (19) e un licenziamento coinciso con l'arrivo di rinforzi di prestigio per una squadra che giocava in serie C, abitualmente davanti a una platea di tifosi più folta di quella attuale, perché il Napoli non è questione di categoria ma di passione. Una meteora, il Giampi, come lo aveva soprannominato dalla showgirl Maria Mazza nei talk show televisivi. Una meteora anche un ex commissario tecnico della Nazionale, Donadoni, diciannove partite a cavallo tra i campionati 2008-2009 e 2009-2010. De Laurentiis disse che gli era stato presentato «da una zia milanese»: nelle prime gare prese posto accanto a Roberto in panchina e in estate diresse in prima persona le operazioni di mercato, emarginando il direttore generale Marino.
Donadoni aveva sostituito l'allenatore che aveva riscritto le prime pagine della storia azzurra: doppia promozione con Reja dalla serie C alla serie A, oltre a un assaggio d'Europa. Edy era il simbolo della ricostruzione, ma prima dell'imprevisto esonero - per avviare un ciclo con l'ex ct che mai sarebbe stato portato a termine - era stato costretto ad ascoltare anche i fischi del San Paolo. È rimasto saldissimo il rapporto con De Laurentiis, a dispetto dell'esonero del 2009 e di un precedente scontro verbale e fisico negli spogliatoi dopo una partita: nessuno dei due ha portato rancore. Dopo Donadoni, sarebbe arrivato Mazzarri, l'allenatore delle due qualificazioni dirette in Champions League, quello delle notti magiche vissute al San Paolo contro Manchester City, Bayern Monaco e Chelsea. Certo, aveva potuto contare sullo strepitoso Cavani - 104 gol - ma era stato in grado di creare un gruppo solidissimo, con quel 3-5-2 che accusava pochi cedimenti. Ve ne furono nel rapporto con De Laurentiis, invece. Prima quando Walter sollecitò l'acquisto di top player e filtrò con la Juve, poi nei suoi ultimi giorni a Napoli: il presidente era sicuro di convincerlo a restare, invece lui aveva considerato conclusa quell'esperienza anche fisicamente stressante.
Un solo allenatore straniero su sei, Benitez, arrivato a Napoli col suo carico di coppe, l'ultima vinta nel semestre alla guida del Chelsea (Europa League).
Due titoli anche a Napoli (Coppa Italia e Supercoppa) oltre a una serie di calciatori d'oltre confine portati al San Paolo per lanciare il piano-scudetto. Tra quelli, come ha recentemente ricordato De Laurentiis, non c'era Higuain perché Rafa avrebbe voluto il brasiliano Damiao e non l'argentino ex Real, che ha vissuto la sua migliore stagione con Sarri, quando il biennio della internazionalizzazione si era concluso in maniera tumultuosa. Rafa ufficializzò il divorzio prima di una partita di Europa League a Wolfsburg, la più bella del suo ciclo, ricordando che senza un centro sportivo e uno stadio all'altezza non si sarebbero cantate messe a Napoli. Prima c'erano stati l'eliminazione dalla Coppa Italia e l'ordine di De Laurentiis di portare gli azzurri in ritiro, uno di quei momenti in cui il freddo dirigente aveva lasciato il posto al tifoso appassionato, anzi infuriato. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino