Da Torino a Napoli fenomenologia dell'Italia anti-juventina

Da Torino a Napoli fenomenologia dell'Italia anti-juventina
Non sempre la Juve è stata la squadra più odiata d'Italia. All'inizio, anzi, era la più amata. Si parla degli anni Trenta, allorché forniva a...

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Non sempre la Juve è stata la squadra più odiata d'Italia. All'inizio, anzi, era la più amata. Si parla degli anni Trenta, allorché forniva a Pozzo l'ossatura di una Nazionale capace di vincere due mondiali di seguito e un'Olimpiade. Era «la signora del calcio» e lo restò nel dopoguerra, col centromediano Carlo Parola, la cui sforbiciata resta uno dei gesti più classici del calcio, e l'attaccante Giampiero Boniperti. Ancora nei Sessanta, le antipatie generali si riversavano sull'Inter pigliatutto, e insomma il sentimento anti-juventino si appalesò solo a partire dal girone di ritorno del campionato 1971-72, grazie a due svarioni arbitrali sui campi di Torino (contro il Milan) e di Cagliari, e a un gol ingiustamente convalidato nella partita Sampdoria-Torino. La Juve prese lo scudetto a quota 43, Milan e Torino si fermarono a un punto. E incominciò la leggenda nera dei bianconeri.


Gli odiatori della Juve sanno sgranare tutto il rosario degli aiuti ricevuti dai «gobbi», per cui il sottoscritto, che di calcio s'intriga pochino, si sente dispensato dall'enumerarli. Più utile spigolare in un libro appena uscito che s'intitola «Odio la Juve. Tredici ragioni per detestare il più forte», è edito da Meltemi (186 pagine, 14 euro) e presenta contributi di giornalisti e scrittori, fra i quali il più noto è il nostro (nel senso di napoletano) Angelo Petrella. Meltemi è un editore scientifico con un catalogo orientato su temi antropologici, sicché non è abusivo ritenere il volume una curiosa indagine di psicologia sociale intorno al fenomeno e ai modi in cui si presenta. Per esempio, c'è l'odio dei torinisti, quelli che, per usare le parole di Stefano Radice, si ritengono dei «diversi permanenti», e sanno che, mentre la Juve è figlia di un papà che di cognome fa Agnelli, il Toro è invece figlio della madre di tutte le sciagure: Superga. Poi c'è una questione più generale, che Max Guareschi definisce «la coscienza infelice dello juventino»: la ragione dell'odio non sta nel numero delle vittorie, bensì nell'atteggiamento nei confronti della vittoria, «che l'homo juventinus considera come un diritto, uno status, e non come un possibile esito». Gli altri coltivano mitologie minori, laddove «per il tifoso bianconero la vittoria è la ragione d'essere del tifo». E non solo per il tifoso, ma anche per il calciatore: vedi Chiellini che «evoca la dimensione mistificatoria della juventinità» e si mostra «con le mani sul volto, mentre si rotola per terra simulando di avere ricevuto una gomitata».

Ma da che cosa nasce la radicata convinzione che dove c'è la Juve si consumi un torto? Che cosa fanno i bianconeri, e cos'hanno di diverso dagli altri? Soccorre al riguardo la massima di Vujadin Boskov: «Loro come noi, due gambe e undici giocatori in campo. Più di noi hanno solo Fiat». E ho detto tutto, chioserebbe Peppino De Filippo. La geografia dell'odio disegna traiettorie specifiche sulla carta d'Italia. Ne spiega gli assortiti campanilismi. Ne illustra le motivazioni profonde ed evidenzia casi di scuola. Come quello di cui si occupa Domenico Mungo, autore di un «Trattato di filologia dell'odio», sottotitolo «Dell'avversione di Firenze per traditori, ladri e invasori», dove aiutato da Dante la prende da lontano, dal Dugento, ma presto arriva al dunque: «Tante squadre possiedono nei loro ricordi un episodio attorno al quale hanno sviluppato la propria conflittualità contro la Juventus. Alcune di esse hanno poi trovato nel tempo il modo per rifarsi nei confronti dei bianconeri, vincendo qualcosa. Per la Fiorentina, invece, il tempo si è fermato alle ore 17.15 del 16 maggio 1982». Quel giorno i viola giocavano a Cagliari l'ultima di campionato, trovandosi a pari punti coi gobbi che invece erano andati a Catanzaro dove avevano trovato una tifoseria molto ostile, gemellata coi viola. E che successe? Che, mentre tutti si stavano abituando alla prospettiva dello spareggio, a Graziani fu annullato un gol, e poco dopo ai calabresi fu inflitto un rigore. Ingiusti l'uno e l'altro, spiega Mungo. Al suo contributo seguono quelli di saggisti tifosi della Spal, della Roma, del Catanzaro, del Lecce, perfino del Cosenza (dove Totonno u Squalu, matto conclamato, coniò il celebre detto: 'A Juventus è morta!). E ovviamente del Napoli. Petrella racconta quando e come il suo iniziale anti-milanismo si mutò in anti-juventinismo. La sua partita totemica è la finale di Supercoppa giocata a Pechino l'11 agosto 2012 e finita 4-2 per la Juve, ai supplementari, dopo tre espulsioni contro il Napoli (due giocatori più l'allenatore Mazzarri), un rigore assai dubbio e altre circostanze discutibili.

 

«La vittoria di più scudetti consecutivi e l'assoggettamento delle coppe italiane al suo diktat, rendono la Juventus molto meno simile a un club che a un'impresa monopolistica nelle terre selvagge all'alba del mercato capitalistico», dice Petrella. E marca la differenza tra il Napoli di Sarri e la solita Juve col fatto che il primo perseguirebbe l'obiettivo della bellezza, la seconda quello della vittoria a tutti i costi.

Il libro si chiude con la sezione «Diritto di replica», affidata a Bruno Barba: non a caso antropologo, oltre che juventino. Non convincerà gli odiatori, ma se ne possono estrapolare un paio di motivi. Primo: l'antropologia insegna a diffidare di chi non ha mai dubbi. Secondo: quelli della Juve «sono uomini a tutto tondo, onesti e pieni di difetti, talvolta eccessivi e altre volte ricchi di slanci generosi», talché «vorrei si dicesse che noi della Juventus giocatori e tifosi siamo davvero come tutti gli altri».
maildurante@gmail.com
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Il Mattino