Entra nelle due azioni da gol, ma tuttavia non è lui. È un Lorenzo Insigne ancora mancante, mette sempre in agitazione le difese avversarie, ma da un po' di...
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La classe c'è ma si sporca con la realtà. La porta si restringe non segna dal 6 novembre dopo un avvio che faceva pensare a una stagione di gol facili tipo quella di Pescara con Zdenek Zeman, e che invece ha subito un arresto. In mezzo c'è stata la mortificazione di San Siro, dove tutte queste mancanze si sono sommate trovando un gesto infantile e una espulsione. La partita di Coppa Italia doveva essere il riscatto, lui c'ha provato, la sua è comunque una buona prestazione, di generosità, impegno e compagniabella come direbbero alla tivù, ma in mezzo c'è il fatto che manca il vero Insigne, manca quello che stava un dito sopra gli altri, e che ora sta un dito sotto. Sguazza, forza, gira, ma non riesce a trovarsi. Si agita, mostrando tutto il campionario di palleggiatore, i colpi di prestigio, i tocchi che ne sottolineano lo stile, però c'è sempre quell'assenza minima che lo separa dalle sue prestazioni migliori, dalla continuità vista prima dell'inverno. È come se a un certo punto fosse stato abbandonato da quella tensione demoniaca che lo animava, da quella corrente che riusciva a trasmettere anche nei passaggi agli altri, che ne percepivano la bellezza prodotta, che ne sentivano la delicatezza inferta al giro della palla, come ora sentono che c'è una nota più bassa, un pallone più lento, un tiro che sarà fiacco, o un passaggio che per ironia ha bisogno del tocco avversario prima di diventare decisivo. Dove prima, Insigne, metteva a disposizione le sue capacità con naturalezza ora c'è una fatica meccanica, con tutto uno stridere muscolare che sentono persino i portieri e che li rassicura , quasi che a correre ci fosse un calciatore grigio, un po' fiacco, e che nonostante tutto fa la sua parte col cuore in pena.
Una pena che si trascina nei palloni che smista, nei dribbling che riescono a metà, nei tiri che si alzano sulla traversa e che disegnano smorfie di sofferenza sulla sua faccia. Il suo percorso da straripante è divenuto bellino, le sue discese hanno un freno, le sue aperture un angolo troppo ampio, come se ci fosse un vento interiore ad autofiaccarsi, le sue azioni contengono un leggero fallimento, mancano di una spinta, dell'ultimo colpo sull'acceleratore. Convive con questa frammentarietà, con questi tentativi da irriducibile, martella la difesa del Sassuolo ma senza trovare il gol, salta da destra a sinistra, arretra a centro, corre in mezzo, furente prova ad avventarsi sui palloni, disturba la costruzione avversaria, eppure non trova se stesso.
Basterebbe pochissimo, pizzicare un pallone su un tiro sbilenco, toccarla su un calcio d'angolo, metterla dentro anche a porta vuota per ritrovarsi, ma fino ad ora non è successo, e allora ci appare come una mosca in bottiglia, lo vediamo mentre va a sbattere convinto di trovare la via d'uscita, incerto lo vediamo ritentare, riprendersi prima della botta successiva, del tiro sbilenco, della girata a vuota, e sbam, di nuovo andare a sbattere, per tornare nella sua clandestinità di giocatore a disagio, alla ricerca della consistenza che pareva acquisita, ripercorrere la fascia, ritentare il dribbling, fai finta di andare, non vai, poi vai, e poi cadere sotto l'imprecisione della geometria perduta.
Allora gli urliamo: Non mollare, dai, uno sforzo di fantasia in più e uscirai da quella bottiglia, tornerai ad essere il calciatore che illumina le partite, che inventa corridoio per i compagni, che passa tra gli avversari come tra filari di pioppi, che azzera le difese e i portieri, e a volte anche le barriere, riuscendo a risentire il fischio che fanno i gol.
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Il Mattino