Ogni volta che un giornalista si presentava da Mario Monicelli, negli ultimi anni, per interrogarlo sul cinema italiano, il vecchio regista rispondeva: «Venite tutti da me...
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Fabio Quagliarella rappresenta lo scarto, l'autentico, il fuori tempo che segna sempre, e spesso in modo strano. Portandosi dietro l'improvvisazione, la scheggia di fantasia che manca ai calciatori educati, in pratica: la puzza della strada. Mancava la maglia da titolare con la Nazionale italiana da nove anni, e rimettendosela, e giocando dall'inizio, ha segnato una doppietta, due rigori, certo, e l'intera squadra da Jorginho e Bonucci i due rigoristi pronta a cedergli il passo e il pallone, disposta a farlo segnare anche dopo i due gol, in un abbraccio che era cura delle proprie radici. No, Quagliarella non è un calciatore a gettone, e nemmeno un killer a prestito, è una delle poche certezze italiane, che resiste, ed è arrivato in salute al gran finale come cantava Lucio Dalla. E segna pure, diventando il più anziano marcatore dell'Italia, scavalcando Christian Panucci che aveva segnato contro la Romania a Euro 2008 a 35 anni e due mesi. Quagliarella ne ha 36 e nessuna intenzione di smettere o fermarsi, si è girato l'Italia calcistica da Udine a Napoli, da Napoli a Torino (sia Juve che Granata) e ora Genova sponda Sampdoria, partendo da Castellammare di Stabia. Ha dribblato più problemi che difensori, ha superato più momenti neri che portieri, ma con la pioggia o il sole, con la rabbia o l'amore, ha continuato a segnare in questi anni, a volte stando in mezzo, a volte di lato, mentre lo fischiavano o mentre lo acclamavano, non ha mai fatto differenza, lui, serpigno, passa, e se gli gira tira dalle posizioni più impensabili, con traiettoria intatta e precisa, esecuzioni micidiali, facendo segnare la purezza estetica che sprigiona, e riportando in prima pagina l'audacia.
Quagliarella non è mai stato un giocatore sottinteso o inespresso, ma uno col mento alto, persino in Sudafrica, in piena disfatta nella partita contro la Slovacchia di Hamsik è quello che lotta e segna, lotta e ci crede, lotta ed esce come il migliore in campo e anche del breve torneo, mentre intorno tutti sono già altrove, per questo nove anni dopo è ancora in Nazionale, perché non ha mai smesso di correre, oscillando tra opportunismo d'area ed essenzialità sotto porta, dove l'essenzialità, spesso, è un colpo di tacco, una girata a volo, o un tiro alla cieca. Sì, perché Quagliarella è l'inatteso, potrebbe essere un uruguayano per come coniuga determinazione e classe, un Ghiggia-Schiaffino che sopravvive nell'era dei Cristiano Ronaldo, una forza del passato, che ogni volta che segna è uno shock per i futuristi, per i fisici, per i marcantoni, per quelli che la tecnica è relativa, poi ti ritrovi un Griezmann fondamentale nella Francia e capisci che avevi Quagliarella, e l'hai lasciato correre in provincia, perso dentro ai fatti suoi mille volte raccontanti una persecuzione che non racconteremo ancora, perché vinta, sorpassata, e perché siamo a una festa aspettando che si riallineasse.
Ora è finalmente libero, dai giudizi e di nuovo pronto a smarcarsi, a cercare l'angolo lontano, in un coinvolgimento totale, di nuovo lazzaro felice per i campi. Un picaro, libero, che non sbandiera mai il suo peso, il suo passato, la sua forza, se ne sta davanti a cercare di far gol e basta, insegue il pallone, lo conquista e cerca di metterlo in porta, semplice, no? Oddio, se sei Quagliarella, altrimenti le porte si restringono, le marcature ti soffocano, i palloni ti scivolano via e la stampa ti assilla facendo a gara di urla con le curve. Il suo è un assedio paziente, con coinvolgimento totale, Quagliarella segna di testa, tacco, punta, destro, sinistro, riuscendo a raggiungere il primato di Batistuta: segnando per undici partite consecutive nel campionato di serie A. Quagliarella non è più avanti, non è più nuovo, è solo attaccante vecchio, sì, stampo, non un vecchio attaccante, uno che non ha mai smesso di frequentare le aree di rigore, e il gol. A fare due conti è un uomo che sfugge: al tempo e ai suoi marcatori, e nella soffitta di qualche spogliatoio ci sarà una vecchia figurina Panini che invecchia al posto suo, mentre lui è in campo e la sta ancora spizzando verso la porta giusta, alle spalle del portiere avversario, toccandola quel poco che basta per dirsi sono ancora vivo e segnante. E se mai si stancherà, tra tre, quattro, cinque anni, potrà sempre fare come Alfredo Di Stefano, arretrare e mettersi a lanciare gli altri, arretrare e vederli correre mentre provano a segnare come lui, inseguendo-lo senza essere creduti. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino