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È un gol archetipico. Che continuerà a segnare nell’eterno. Non lo segna una sola volta, ma per sempre. Ed è un gol baggesco quello di Khvicha Kvaratskhelia: l’ultima risorsa del calcio bambino. Un calciatore puro e fuori dal tempo presente. Perché lo dribbla continuamente venendo dal passato e parlando al futuro. Per capirlo bisogna vederlo da terra non reclamare un fallo, ma compiere il passaggio, in un vertice di non integrazione calcistica. Qualunque altro calciatore si sarebbe preso il fallo e avrebbe atteso il fischio dell’arbitro, Kvara no, perché non appartiene ancora al mondo della finzione. Certo, reclama l’Europa per la sua Georgia, ma per fortuna è ancora un ragazzo da calcio selvaggio, gioca e continua a giocare fino a quando riesce, in piedi o da terra, perché si diverte.
E se ripercorre le oscillazioni baggesche, lo fa senza cupezza sulle spalle, senza rivendicazione delle gambe e senza nemici. Kvara è libero e continuando a dribblare tiene vivo il fuoco del calcio. Dribbla la logica dell’efficienza, dribbla gli schemi, dribbla il cambio delle maglie tra un tempo e l’altro, dribbla i gel e i docciaschiuma, dribbla gli sguardi in telecamera, dribbla il postmoderno, dribbla l’inutile delle chiacchiere prima dopo e durante le partite, dribbla i numeri e persino i soldi, dribbla i seri professionisti e le recite di Mourinho e dribblando diventa epopea, un sorpasso dell’essenza calcistica sul calcio dei due tocchi, rifondando l’epicureismo di un futbol favoloso, che se ne infischia francamente di tutto. Le sue sterzate, i sui guizzi serpigni, le oscillazioni da pendolo e poi il destro che piazza il pallone all’incrocio dei pali sono lo scialo del talento. Che Toloi, Demiral, Scalvini e infine Musso non possono fermare. Perché Kvara è barbarico. E non basta l’Atalanta. Per questo è ancora un calciatore capace di illudere, che può giocare da solo e sfidare l’intera linea difensiva di una squadra e scartarla, senza cadere né perdere il pallone, perché non ha notizia del pericolo né della paura, non è corrotto e forse mai lo sarà.
È un frammento di libertà che agisce sui campi. Solitario se ne va in uno scarto continuo che lo mette al riparo dalla tranquillità.
Poi, solo dopo, molto dopo, viene l’esecuzione, la traiettoria, e il professionismo all’orizzonte, ma prima c’è la purezza estetica della ricerca del gol, un laboratorio di emozioni che il calcio di oggi ha trasformato in collettivo, lasciando al goleador pochi attimi prima del gol, invece Kvara va alla ricerca del tempo perduto, va a riprendersi quello sottratto a tutti i calciatori pettinati, corretti, educati dalla deriva del guardiolismo, e li fa vivere nei suoi dribbling, nei suoi slalom, nel suo fare finta di andare, non andarci, poi sì. Non è narcisismo, ma esercizio d’identità. Dribblando salva quelli che vogliono essere artisti nonostante il mercato, quelli che resistono al richiamo dell’ubbidienza, quelli che scioperano per Gary Lineker rimosso dalla BBC, quelli che non si arrendono ad essere un brusio grigio in un ufficio ministeriale. Kvara dribbla a nome di una nazione che non esiste, quella dei calciatori selvaggi.
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