Tokyo 2020 Trials, Richardson ​è la più veloce nei 100 metri

Tokyo 2020 Trials, Sha'Carri Richardson è la più veloce nei 100 metri
Sha’ Carri Richardson è una ragazza della Generazione Z, quella del “gender fluid” e del “save the planet” generalizzando, miti variabili che...

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Sha’ Carri Richardson è una ragazza della Generazione Z, quella del “gender fluid” e del “save the planet” generalizzando, miti variabili che vanno da Greta Thunberg a Samantha Cristoforetti, da Chiara Ferragni a Stephen Hawking, da Billie Eilish a Papa Francesco. È nata a Dallas, nel Texas, il 25 marzo 2000 ed è attualmente la donna più veloce degli Stati Uniti, quale è risultata ai Trials in corso ad Eugene, nell’Oregon, quando in semifinale ha vinto in 10.64 con l’aiuto del vento ed ha tagliato il traguardo indicando l’orologio che aveva al polso e quando poi in finale è arrivata prima in 10.86 che è il secondo tempo dell’anno, più alto solo del 10.63 di Shelly-Ann Fraser Pryce, mamma giamaicana 35enne, che è il secondo crono di sempre dopo il lunare 10.49 di Florence Griffith-Joyner che resiste dal 1988 (Indianapolis, Trials verso Seul ’88).

Di Florence Griffith, che si ritirò dopo i Giochi coreani, a nemmeno trent’anni, perseguitata da mai provate voci di doping cui aggiunse mistero la morte improvvisa dieci anni dopo, Sha’ Carri imita l’aspetto: ha unghie lunghissime e di tutti i colori e capelli ugualmente lunghissimi che tinge svariando nella tavolozza: a Eugene erano di tonalità arancione che pure Pel di Carota avrebbe invidiato. Per Tokyo dice che sorprenderà: ha già usato il blù, il rosso, il nero e il giallo. Anche i capelli sono lunghissimi come quelli della Griffith: però alla Richardson arrivano quasi sul fondo schiena: è “tascabile”, 1,55 metri contro l’1,70 che era l’altezza di Florence. Pure la Fraser-Pryce appartiene alla piccola taglia: 1,52.

Il coach "chiacchierato"

Un’altra cosa “avvicina” la Griffith e la Richardson: un coach “chiacchierato”. Nel caso di Florence si trattava di Bob Kersee, che era anche suo cognato (avevano sposato due fratelli campioni: lui Jackie Joyner, lunghista ed eptathleta, lei Al Joyner, lanciatore che poi la allenò) e che era dietro i grandi successi degli sprinter californiani, sospettati ma niente fu mai provato, e dunque pulitissimi. Nel caso di Sha’ Carri, invece, l’allenatore fu “pizzicato” positivo al testosterone, quando era ancora un atleta da medaglia. Si tratta di Dennis Mitchell. Non passò un controllo a sorpresa e la scusa accampata non fu creduta: sostenne che la sera prima aveva bevuto cinque birre al pub e che essendo il compleanno della moglie aveva avuto una grande notte di sesso con lei, che, disse, “meritava un bel regalo”. Si vantò di quattro amplessi ma non fu creduto e squalificato. Mitchell è stato anche l’allenatore di Justin Gatlin, altro campione di medaglie e di squalifiche.

Cocca di nonna

Sha’ Carri Richardson si è resa protagonista, al termine della finale di Eugene, di un gesto che ha intenerito. La sua corsa non è finita sul traguardo ma è proseguita su per i gradoni in cemento dello stadio fino ad arrivare alla sezione 119, dove era seduta Beth Harp, la nonna che l’ha cresciuta. L’abbraccio fra nonna e nipote è durato oltre i 10.86 della gara. “Lei è il mio tutto, il mio mondo, il mio riferimento nella vita” ha detto la sprinter commossa, raccontando anche, ma senza voler aggiungere particolari, di piangere anche perché ha perduto da una settimana la mamma biologica, scatenando, senza successo, il giornalismo-spione.

Piuttosto Bolt

Non è il paragone inevitabile con la Griffith, però, che stimola la ragazza texana. Se c’è un idolo atletico nella sua testa, questo è Usain Bolt. Nei siti e sulla stampa americani l’attesa su di lei per Tokyo è enorme, sognando un “triplete” 100-200-staffetta veloce, e la Richardson la alimenta a suon di post sul web. Il claim del suo profilo twitter, account @itskerrii, è “just know I’m not slowing down”, sappi solo che non sto rallentando. Si aggiunga poi che le velociste statunitensi nel Terzo Millennio non hanno mai vinto l’oro olimpico nello sprint: il primo posto nel 2000 a Sydney, quello di Marion Jones, fu tolto per doping (oro non assegnato: anche la seconda, la greca Thanou, era della congrega),  e perciò l’ultimo oro più veloce degli Stati Uniti, abituati da sempre a vincerne tranne brevi e casuali intervalli, è quello di Gail Devers, Atlanta 1996. La allenava Bob Kersee.


 

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Il Mattino