La flotta scomparsa del Kan non era leggenda: ritrovata da archeologi napoletani

Archeologo durante le ricerche in mare
Archeologo durante le ricerche in mare
di Oscar De Simone
Venerdì 22 Novembre 2013, 00:38 - Ultimo agg. 25 Novembre, 12:06
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Una equipe di archeologi napoletani ritrova, nei fondali a largo della piccola isola di Takashima, la flotta dell’imperatore Kublai Khan, nipote del condottiero mongolo Gengis Khan. L’area si trova a sud del Giappone e più precisamente nell’isola del Kyushu, nei pressi della baia di Hakata, che per ben due volte fu scelta dai Mongoli come area idonea per l’invasione del paese nipponico, in quanto sede del “Korokan” (il palazzo Imperiale).

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Il primo tentativo di conquista fu nel 1274, e l’altro (quello che riguarda il ritrovamento) nel 1281 con due flotte provenienti dalla Cina e dall’attuale Corea che avrebbero dovuto dar vita ad uno sbarco senza precedenti.

La spedizione Italo – nipponica, dopo due anni di incessanti ricerche, condotte dall’archeologo Daniele Petrella, direttore dell’Iriae (international research institute of archaeology and etnology) e dal prof.

Hayashida Kenzo presidente e fondatore dell’Ariua (asian research institute of underwater archaeology), con la partecipazione del prof. Sebastiano Tusa della soprintendenza del mare della regione Sicilia, è riuscita ad individuare ed a riportare alla luce parte della flotta salpata dall’antica Happo (Corea) e spazzata via da un tifone il 15 agosto del 1281.

Il ritrovamento è di quelli veramente importanti che vanno a conferma delle cronache e delle leggende antiche. Un po' come il ritrovamento della città di Troia, considerata un mito non storico fino a quando Schlieman non la riportò alla luce ed alla storia.

I giapponesi infatti, narrano da sempre di un Kamikaze (vento divino) che salvò la loro isola nel XIII secolo d.C., ed i resti delle 168 imbarcazioni rinvenute sembrano proprio avvalorare questo racconto.

Le navi della flotta dell’imperatore a quel tempo, erano dotate di una sola ancora e proprio il conteggio di queste è servito ai ricercatori per il primo calcolo delle barche ritrovate.

“Le fonti parlano di 4.400 navi salpate alla volta del Giappone” ci dice Petrella, “ma a quanto pare le nostre ricerche hanno già ridotto di parecchio il numero di quella che è passata alle cronache come l’armata navale più grande della storia, prima dello sbarco in Normandia della seconda guerra mondiale”.

Le due armate si sarebbero dovute incontrare nei pressi dell’isola di Jki per poi partire all’attacco, ma il ritardo – ben sei mesi – del ramo Cinese fece slittare l’assalto al mese di Agosto. Periodo proprio dei tifoni. “Le forti raffiche di vento a 250 Km orari costrinsero i marinai a posizionare le vele a favore di vento” commenta Petrella “spingendo le imbarcazioni verso le rocce dell’isola di Takashima”.

Il violento impatto frantumò gli scafi delle navi che affondarono l’una dopo l’altra, ricoprendo il fondale dell’isola sino ad oggi.

Dopo più di 600 anni, i tesori custoditi sulle imbarcazioni sono tornati alla luce. Anfore, armi, elmi, ed armature ancora rinchiuse all’interno di solidi bauli hanno raccontato agli archeologi la tragedia di quel giorno.

Un dato interessante però, è quello relativo al ritrovamento delle cosiddette “Teppo”, ovvero bombe da lancio che si pensava fossero state inventate in Occidente intorno al XV secolo. Queste armi erano composte da un involucro di forma sferica in ceramica, riempito con polvere da sparo e schegge di ferro di varia grandezza. Un makimono (disegno che si srotola) lungo 70 metri, in carta di riso, racconta con le immagini dell’invasione Mongola e raffigura diversi soldati giapponesi uccisi dall’esplosione di questo oggetto che sino a pochi anni fa, era sconosciuto agli storici.

Il sito di Takashima, data la sua importanza, è stato riconosciuto come primo parco archeologico sommerso nazionale del Giappone e questo ha spinto i ricercatori nipponici, a voler seguire l’esempio dei conservatori napoletani che hanno in cura il parco sommerso di Baia.

Sembra esserci tanta Napoli insomma, nelle ricerche e nelle scoperte che svelano la storia antica del Giappone. “C’è ancora tanto da scoprire nei fondali nipponici” conclude Petrella, “e c’è sempre più professionalità tutta Italiana da mostrare al mondo”. La missione però, non finisce qui.

Per l’anno prossimo infatti, è prevista una mappatura ancora più approfondita dei fondali della baia.