Il mito di Ondina Valla, nel segno delle donne

Ondina Valla
Ondina Valla
di Enrico Cavalli
Mercoledì 14 Ottobre 2020, 23:53 - Ultimo agg. 16 Ottobre, 00:33
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L'AQUILA - Su “RaiStoria” del 13 ottobre scorso, è andato in onda “Il Mito di Ondina Valla”. Nel format “Il Segno delle Donne”, che racconta la vita di sei donne (con lei, Margherita Sarfatti, Adele Faccio, Vera Vergani, Chiara Lubich e Lalla Romano), che hanno lasciato traccia nella vicenda del Paese compare la prima italiana medagliata d’oro a Berlino 1936, bolognese di nascita ma aquilana d’adozione dal 1941, Trebisonda (Ondina) Valla.
Il 16 ottobre, al 14.mo dalla scomparsa della olimpionica Ondina Valla prendendo spunto anche criticamente dalla stessa puntata Tv a lei dedicata, ecco il ritratto di questa straordinaria donna-atleta che ne fa Enrico cavalli

RITRATTO DI ONDINA VALLA in un saggio di Enrico Cavalli

Quattro anni or sono, dalla lodevole iniziativa presso il Teatro dell’Aquila, di uno spettacolo sulla prima atleta italiana olimpionica a Berlino 1936, Trebisonda Valla (il padre, Gaetano, affascinato dalla città turca menzionata nella novella araba “Le Mille e una Notte”), come noto, di nascita felsinea il 20 novembre 1916, unica femmina con quattro fratelli, ma in terra abruzzese a fine anni ‘40.
Quella kermesse bissò con rinnovati motivi di attrazione extra pubblico sportivo, per quantità e qualità di cimeli, foto, documenti d’antan relativi al personaggio, quanto andato in scena nel 2008, ai saloni della Carispaq, sotto i Portici ottocenteschi.

Tanto in prima esposizione che in seconda occasione (agli 80 anni dall’evento a cinque cerchi berlinese), potevano esserci contestualizzazioni della Valla rispetto allo sport locale; la qualcosa, occorrente, per non slegare l’atleta dalla memoria collettiva, e, qui, potevano servire, i contributi di quanti tentano di riannodare le trame di un discorso sportivo aquilano in mancanza di catalogazioni archivistiche precise.
Opzioni di rassegna su di un tema libero, perciò, liberissime, si intenda, e, sommessamente, ne prendiamo atto, tuttavia, ci sia consentito di dire che il tempo della ricostruzione post sisma ‘09, se è collettiva, come più volte sbandierato, pure, passerebbe per sinergie morali ad ampio raggio, senza autoreferenzialità e/o pregiudiziali ideologiche, che talora si ravvisano nella vita civica.

Scusandoci, per l’ardire ed omissioni eventuali, interveniamo per compendiare il rapporto fra la grande olimpionica e la città che l’accolse.
Nel 1953, assommava un blasone agonistico di prim’ordine, Ondina Valla, quando giunse all’Aquila, dopo approdi abruzzesi di Pescara, Lanciano, Chieti seguendo la parabola professionale del marito sposato dieci anni addietro, per dispensa vescovile, Guglielmo De Lucchi patavino ed ex atleta del Gruppo universitario fascista, conosciuto dalla atleta perché ortopedico al felsineo “Istituto Rizzoli”; il consorte medico della Valla, certamente, consapevole dell’avanguardistico sistema sanitario aquilano, incentrato sul nosocomio “San Salvatore” (dove esercitò il radiologo bolognese Matteo Rusconi che fu colonna dell’AS Aquila nel 1933-1935), trovò giusto di fondare e allestire la clinica privata per recupero di traumatologie ed elioterapie, “Villa Fiorita”, alla periferia del sobborgo comunale di Pettino, sotto il Gran Sasso, una struttura di valore assoluto nel centro Italia.

La carriera della Valle comincia il 23 giugno 1927, ad undici anni, conseguendo a livello di gare scolastiche, un metro e dieci nel salto in alto, terzo posto nei 50 metri piani e nel lungo con un 3,52, alla presenza del maggiore Vittorio Costa, organizzatore dei “Littoriali” di Bologna e che mostrò attenzioni alle evoluzioni di questa atleta in erba, campionessa assoluta tre anni più tardi.
Convocata in azzurro dalla Commissaria tecnica Martina Zanetti, la Valla, alta 1.73 per 66 kg., una filiforme e versatile in varie specialità, sfrecciava ai 100 metri, staffetta veloce, 80 metri ad ostacoli, lungo, alto e in occasione di un confronto Italia-Belgio del 1930, divenendo tesserata assieme all’amica e validissima tecnicamente Claudia Testoni della Sportiva Virtus Bologna.
Dopo la mancata e discussa partecipazione delle donne alle Olimpiadi estive di Los Angeles del 1932, per i veti all’ingresso del ”gentil sesso” da parte del CIO., le autorità sportive italiane avvertendo che quei lacci stavano per cadere, assoldarono Boyd Comstock, l’allenatore indo-statunitense per modernizzare l’atletica femminile, il che la diceva lunga su falle del nazionalismo e/o maschilismo di regime, ma importa assai che sugli scudi delle azzurre in tartan, ci fosse Ondina, tale diminutivo affibbiatole dalla Zanetti, e reduce da quattro titoli agli universitari di Torino del 1933, undici vittorie nazionali agli 80 metri ad ostacoli e di cui, proprio, sarà la medaglia d’oro berlinese, un evento memorabile per lo sport italiano.

Fortemente voluti dal Fuhrer, per esibire al mondo la Germania nazionalsocialista, i decimi Giochi dell’era moderna, cominciarono il primo agosto 1936, col particolare per la prima volta, della fiaccola accesa ai resti greci di Olimpia e che entrò al cospetto dei centomila astanti fra i gradoni del gigantesco “Olympiastadion” di Berlino, il tutto ripreso dalla regista del lungometraggio “Olimpia”, Leni Riefenstahl e dalla sperimentale tv a circuito chiuso.

In archivio l’eliminatoria, il 5 agosto ‘36, Valla e Testoni entrarono alle semifinali, incredibilmente, eguagliando Ondina in 11”60 il record del mondo, pur se per omologato con vento favorevole di 2,8 metri al secondo (non allora, in vigore la regola dei 2 m/s quale limite massimo).
Al 6 agosto della fatidica finale, le due atlete non giungono al massimo della forma e cercano di aiutarsi con “zollette di zucchero al liquore”, eppure, la Testoni parte fortissimo, finché non si vede gradualmente sorpassata dalla falcata della Valla lesta a saltare gli ostacoli, per un rush finale che vede quattro atlete con lo stesso tempo, 11”7.
Momenti concitatissimi per le atlete e cronometristi che in base alla avveniristica “zielzeitkamera”, diedero prima l’argento, poi il bronzo, infine, il quarto posto alla Testoni, avente l’uguale 11” 809 della canadese Betty Taylor (la valorosa atleta azzurra, si sarebbe rifatta con l’Europeo del 1938), soprattutto, il fotofinish sentenziò l’11” 748 della Valla davanti alla tedesca Anny Steuer: risuonò l’inno della “Marcia Reale” (per altre fonti, l’anthem fascista “Giovinezza”), il tricolore spiccava sul pennone più alto dello stadio berlinese, mentre Ondina venne adornata dal membro italiano del Cio, il generale Giorgio Vaccaro, dell’oro e della quercina di settanta centimetri con teca di porcellana e scritta “cresci per onorare la memoria, sii di sprone a nuove gesta”, stabilita per atleti vittoriosi.

Come antesignana donna olimpionica italiana, venne tanto elogiata dalla sua Bologna ed in patria, il Duce proponendola come figura modello del femminismo di regime ed anzi pretendendo che in onore della Valla, fosse istallato quel quercino, all’ingresso dello stadio bolognese “Littoriale”, l’impianto-gioiello voluto dal ras dello sport felsineo e nazionale, Leandro Arpinati nel 1927.
Valla ricevette in premio anche cinquemila lire, il privilegio della foto-dedica della regina Elena di Savoia ed un riconoscimento di ordine familiare, perché il fratello Rito, scultore, la ritrasse nella statua dell’“Ostacolista” posta alla sede bolognese della Gioventù del Littorio e dal 1945, davanti alla fabbrica dolciaria di Bruto Carpigiani l’emiliano inventore delle macchine automatiche e fan della olimpionica.

Non pare adagiarsi sugli allori, la Valla che accusato il colpo del passaggio della Testoni alla Venchi Unica di Torino, piglia il primato italico del salto in alto a 1.43 mt., nel 1937, maggiorato ad 1.56 nel 1940 (battuto nel 1955), come pentatleta in forza alla SS Parioli di Roma che nel 1943 allena così come farà per l’atletica di Ferrara, ma l’irrompere delle ostilità belliche in Italia, non consentirono altre imprese di spicco per la grande azzurra.
Valla, allora, in Abruzzo dal 1948, qui, riprese e chiuse la carriera di atleta multiforme, pur avendo a che fare con problemi fisici, al punto da vincere regionalmente nel lancio del peso nel 1952, e, inevitabilmente, visitando L’Aquila, da tempo fra le capitali agonistiche del Paese, per polifunzionalità dello stadio monumentale “XXVIII Ottobre” (ispirato a quello bolognese) ed imprese in discipline individuali e di squadra: si pensi al tricolore di atletica leggera, in specialità dei 1.500 piani, di Baglioni a Fiume nel 1924, all’AS L’Aquila in serie B nel 1933-34; soprattutto, un movimento di praticanti e vasto numericamente, al di là degli aspetti di avanzamento di status sociale, che fare il rugby o la pallacanestro, piuttosto che il ciclismo, poteva significare, in quegli anni autarchici e di una seconda guerra mondiale, dal carico tremendo di patimenti per la gente aquilana.

Logico che i gerenti lo sport cittadino, una volta la Valla all’Aquila, non si facessero sfuggire, la possibilità di carpire i servigi di un’atleta di prestigio mondiale, per dare ulteriore spessore d’immagine all’opzione agonistica del più generale progetto del Grande Comune, vieppiù, per conferire smalto alle attività locali della disciplina regina per antonomasia.
Nell’atletica leggera aquilana, i risultati, restavano soddisfacenti per effetto delle prestazioni di altro ostacolista ai Giochi di Berlino (per inciso, fra i vincenti dell’undici azzurro al calcio olimpico e capocannoniere ancora oggi della rassegna, l’Annibale Frossi, che lasciò il rossoblù aquilano nell’estate di quell’anno, per l’AS Ambrosiana-Inter), quell’Emilio Mori, pistoiese e guffista, che insieme al milanese Arrigo Leoni, venne per rafforzare la locale leva, sulla pista a carboncino nello stadio comunale, dei Baglioni, Passacantando, Tiboni, Properzi, e, il velocismo femminile delle Cellammare, Laglia, Agnelli, Ferri, meno vigore aveva l’atletica pesante, sebbene, qui, la stessa affermazione della Valla potesse fare da pungolo.
In un’epoca in cui gli spazi ed opportunità nella società, ancora non si dischiudevano, per le donne, che alle stesse Olimpiadi poterono cimentarsi in tutte le specialità, solo dopo Londra 1948, di cui un tedoforo fu il velocista aquilano di adozione Giacomo Taccia, ebbene, l’esempio di Ondina, fu pregnante per un certo emancipazionismo del cosiddetto gentil sesso, ovvero, per l’incremento di versione locale dello sport al femminile.

Ritiratasi dalla scena agonistica Ondina, intese assecondare l’attività imprenditoriale nella sanità privata, del suo consorte, ma che chiuderà i battenti nel 1966 (sarà demolita a seguito del sisma 2009), mai mancando di svolgere un ruolo dirigente, nel promozionamento sociale dello sport nel capoluogo abruzzese.
Fu membro del Panathlon aquilano, assieme ai nomi che avevano riassunto lo sport di mezzo secolo alle falde del Gran Sasso, quali Fattori, Carlei, Mori, Mancini, Bruno, Capranica, in grado di realizzare virtuose sinergie col canale politico, affinché il capoluogo abruzzese, divenisse un ridotto di avanguardia, per le Olimpiadi di Roma nel 1960, un traguardo quello a cinque cerchi, importante socialmente per L’Aquila, e, tale, da valorizzare come punto di aggregazione, il ristrutturato stadio ex “XXVIII Ottobre”, nonché da far riscattare a livello della politica sportiva regionale, la perdita delle sede abruzzese Fidal, andata a fine anni ‘40, in quel di Sulmona e poi alla Pescara, avente le corsie in tartan, all’“Adriatico”.

Il fatto è che per avere la seconda donna italiana nella regina degli sport, sul più alto podio olimpico, bisogna aspettare i boicottati dagli USA, Giochi di Mosca nel 1980, qui, la già detentrice del record mondiale nel 1978, di salto in alto a 2,01, Sara Simeoni, da Rivoli Veronese (famosa per la battaglia napoleonica del 1797), riesce nell’impresa, e, inevitabilmente, trasalirono un parallelismo con la leggenda di Ondina.
C’è stato un incontro memorabile, ad occasionarlo ”La Gazzetta dello Sport”, fra la Valla e la Simeoni, l’una e l’altra, nella Hall of Fame della loro disciplina, del resto, in tempi diversi primatisti di specialità ed insignite di massime onorificenze della stessa Repubblica italiana, proprio, all’atto del trionfo olimpico della altera scaligera, allenata dal marito Erminio Azzaro.

Valga dire che, la campionessa veronese e donna simbolo dello sport nazionale al centenario del Coni, ha avuto modo di dare il suo apporto morale alla ricostruzione sociale e sportiva del capoluogo abruzzese post sisma del 2009, facendo da testimonial con campioni dello sport italico dal “signore degli anelli” Yuri Chechi al re del tennis Adriano Panatta, per le rassegne aquilane dei Giochi sportivi studenteschi, quindi, ha avuto modo di visitare costei, i luoghi della città ospitante la sua precorritrice atleta olimpica.

Facendo un passo indietro, Ondina Valla, suo malgrado, era stata assisa sulla stampa, perché nel 1978, vittima di un furto nella sua abitazione all’Aquila, che le tolse la medaglia d’oro conseguita all’“Olympia Stadion” berlinese.
Nel 1984, alla vigilia dei Giochi di Los Angeles, grazie agli sforzi del Panathlon aquilano e del segretario Coni, l’avezzanese Mario Pescante, il presidente della Fidal, Primo Nebiolo, fece dono alla grande atleta, di una riproduzione del prestigiosissimo cimelio olimpico.

Fatto simbolico, se si pensa che la Valla, avrebbe potuto partecipare nel 1932, alla prima edizione dei Giochi in terra californiana, invece, questa chance di ottenere probabili allori, non le fosse stata impedita, dall’allora in voga, trasversalmente, costume maschilista, essendo unica donna nella spedizione azzurra Oltreoceano.

Gli aquilani hanno modo di ammirare il “passo elegante” della Valla, nel 1995, allorquando funge da tedoforo all’ultimo tratto della staffetta per la fiaccola della Perdonanza Celestiniana, che dagli eremi del Morrone giunge il 28 agosto di ogni anno, per essere accesa al tripode di Palazzo Margherita d’Austria.

Alla scomparsa nell’ottobre 2006, di Ondina Valla, il riscontro localistico, insomma, parve poco all’altezza delle rassegne fotografiche e dibattiti della felsinea patria natale dell’atleta; la città che accolse simile medaglista nel 1941, pensò bastevole per onorarne la memoria, dedicarle le vasche olimpiche risalenti agli anni ‘30, di viale Ovidio.
Era la riprova di superficialità nel rapporto fra sport e politica nell’Aquilano, solo per risolvere, appunto, la questione della intitolazione della piscina comunale, al gerarca locale Adelchi Serena, a fine anni ‘90.
Più correttamente, in una politica di richiamo alla tradizione sportiva locale, si doveva collegare il nome di Ondina Valla ad una delle strutture di atletica nel grande comune, e, così dare un luogo di riferimento simbolico, ai giovani/e praticanti (ve ne sono ancora, fra non poche difficoltà) della disciplina regina degli sport, avente necessità di numi tutelari, come la prima donna italiana olimpionica.
Enrico Cavalli

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