Invalido “recluso” da un mese in attesa di tampone. I famigliari: «Non sappiamo più cosa fare. Abbiamo fatto centinaia di telefonate e nessuno interviene. Anche il medico di famiglia non ci aiuta». Un mese in un limbo, come se fossero arresti domiciliari. E’ la storia di due fratelli: lui, un invalido di 70 anni e lei di, due anni più giovane, che lo assiste. A denunciare la situazione il nipote sotto un post del sindaco di Silvi, Andrea Scordella che annunciava i tamponi drive-in ad Atri.
«Sindaco – commenta l’uomo - si potrebbe interessare anche di chi, impossibilitato a uscire, aspetta da un mese il tampone a domicilio risultato positivo al molecolare fatto da una clinica privata». Lo zio, con dei seri problemi polmonari per una patologia pregressa e un’invalidità del 100 per cento, scopre che un suo amico che frequenta quotidianamente ha contratto il Covid-19. Si mette in isolamento domiciliare. Una settimana dopo, il 16 ottobre, sia lui che la zia hanno iniziato ad accusare i sintomi del coronavirus: febbre alta, tosse secca, spossatezza e perdita di gusto o olfatto. Allora chiamano il medico di famiglia e chiedono di fare la richiesta per i test. Passano 5 giorni, le condizioni dei zii peggiorano, ma nessuno si fa vivo. «A quel punto – continua il nipote – abbiamo iniziato più volte al giorno a chiamare Asl, medico e 118. Niente da fare. Siamo stati abbandonati.
Interdetto dalla risposta minaccia di chiamare le forze dell’ordine. «Pochi minuti dopo interviene un’ambulanza e trasportano mia zia al Covid Ospital di Atri dove è tutt’ora ricoverata. Mentre mio zio sta aspettando in casa ancora il primo tampone. Di certo il drive-in – conclude - è una bella iniziativa. Ma per i casi come quello di mio zio, invalido, in sovrappeso e vive in un palazzo al terzo piano con l’ascensore rotto da mesi, noi famigliari senza l’adeguata attrezzatura per proteggerci, come possiamo portarlo in auto per fargli fare il test».