Coronavirus ad Avellino, il vescovo:
«Chiedo perdono ai morti privati della dignità»

Coronavirus ad Avellino, il vescovo: «Chiedo perdono ai morti privati della dignità»
di Riccardo Cannavale
Sabato 21 Marzo 2020, 09:05 - Ultimo agg. 12:35
4 Minuti di Lettura

Un pensiero per restituire dignità alle morti di questi giorni, che sembrano essere trapassi senza volti, senza storie, senza memoria. È quello che il vescovo di Avellino, Arturo Aiello, condensa in quella che definisce la sua quarta lettera dal deserto con la quale si rivolge proprio a chi ha pagato il prezzo più caro in questa battaglia contro il virus.

Il pastore della diocesi di Avellino usa proprio la metafora della guerra per ricordare il sacrificio dei caduti. «Voi siete stati, in questa guerra ancora tutta da combattere e da vincere, il Battaglione San Marco, quelli mandati avanti a tutti per difendere il resto, e avete offerto i vostri petti nudi alle prime mitragliate del nemico che vi ha tranciato senza pietà. Lui non ne ha avuta, mi chiedo se ne abbiamo noi che vi vediamo scomparire dalle nostre case prelevati da operatori sanitari vestiti da palombari e perdiamo di voi ogni traccia, privati della parola, dello sguardo, del gesto che accompagnano i riti del morire. Abbiate pietà della nostra freddezza e dell'inconfessato godimento che proviamo nei bollettini della sera per non essere nel vostro cumulo, per essere ancora vivi con aria nei polmoni e sangue caldo nelle vene».

LEGGI ANCHE Coronavirus, altri due morti in Irpinia 

C'è un velo di tristezza nelle parole di Aiello. Quella che sgorga dalla consapevolezza che una esistenza accelerata abbia fatto perdere il senso della vita. E, di conseguenza, il significato della morte. «Nella corsa forsennata ci siamo estraniati a noi stessi, non abbiamo più goduto dell'affetto dei parenti e degli amici, del canto degli uccelli, dell'esultanza della Primavera, del colore rubino del vino, di un abbraccio, di una parola, di un silenzio - scrive il vescovo - Sempre fuori casa, fuori di noi, fuori del momento giusto per vivere, fuori della gioia, sempre esuli. Ora una peste ci ha tappati in casa e ci stiamo a disagio, arrabbiati, pronti a riprendere la corsa non appena ci daranno il segnale agognato e scenderemo nelle piazze a festeggiare tutta la notte come se niente fosse accaduto. Voi non ci sarete».

LEGGI ANCHE Coronavirus, De Luca chiude quasi tutto

È un invito alla riflessione quello che il vescovo Arturo, con il suo stile sottile e solenne rivolge a tutti, in un tempo in cui ciò che non manca è proprio il tempo. Ed è anche un inno alla vita che arriva attraverso la sublimazione della morte. «La morte è un evento ineluttabile, non dipende da noi, ma da noi dipende ilmorire. La morte riguarda tutti, anche un passero, una quercia, una cosa, ma il morire è un fatto personalissimo che solo noi uomini possiamo vivere. Riguarda il modo solenne con cui si può incedere, l'attardarsi con lo sguardo sulle cose, accarezzare con gli occhi persone e cose, piante ed oggetti, le pareti di casa, dire parole, scrivere testamenti, pronunziare una benedizione sui figli. Questo e tanto altro rientra nel morire che è un fatto personalissimo, varia da persona a persona, esprime la grandezza di un uomo che consapevolmente si avvicina alla morte facendone un dono».

E c'è rabbia, nelle parole del vescovo, nel constatare come i familiari dei defunti in questi giorni «non hanno avuto il conforto di veglie affollate e abbracciate, di preghiere recitate tra le lacrime, di porte di chiese che si aprivano come braccia materne». L'epilogo è una richiesta di perdono che si leva non prima di un parallelo con una delle più celebri pagine manzoniane. «Nella scena della peste di Milano, Manzoni scrive una pagina mirabile sulla bellezza del morire quando racconta l'incedere della Madre di Cecilia: porta sulle braccia la figlia morta come si porta una bambina a Battesimo, con la veste bianca, i capelli ben pettinati come per una festa. I monatti abituati ad ammassare cadaveri senza alcuna cura colgono il dolore della donna, la bellezza della piccola morta, la tristezza del distacco, il dramma del momento e, per un attimo, si inteneriscono e fanno spazio con cura alla giovane vittima sul carro della morte. A nome di tutti - conclude il vescovo Arturo - desideravo chiedervi perdono, assicurarvi, ma questo già lo sapete, che il vostro vescovo e i vostri parroci ogni giorno celebrano per voi, come in un rito funebre assente cadavere, e chiedervi di aiutarci a vivere nel momento giusto per morire al momento giusto». 

© RIPRODUZIONE RISERVATA