Terremoto Avellino 1980, quando l'ex portiere Tacconi scavava con i vigili

Terremoto Avellino 1980, quando l'ex portiere Tacconi scavava con i vigili
di Gianni Colucci
Venerdì 23 Novembre 2018, 16:00 - Ultimo agg. 20:25
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Uno di loro è stato in Messico per soccorrere le popolazioni terremotate, uno specialista che ha vissuto le tragedie di Friuli e della Sicilia. Ma è quella storia che ha vissuto nella sua città gli ha scalfito il cuore.

Nicola Petitto caposquadra dei vigili del fuoco di Avellino il 23 novembre dell'80 era a 20 minuti dalla fine del suo turno di servizio quando la terra tremò.

Poco distante, a casa sua, c'era Francesco Brancaccio, il suo collega spesso compagno nel servizio.

Oggi Nicola e Francesco snocciolano ricordi, non da reduci, ma con sincero dolore, finanche con pudore.

«Sono storie di persone che ci sono passate accanto, compagne per sempre delle nostre vite», dice Nicola.

Nicola è finito finanche in cura dopo qualcuna delle sue operazioni di recupero nel dopo terremoto. In cura per le ferite provocate da una caduta da un'impalcatura, con una bimba in braccio che stava portando in salvo; in cura per il trauma psicologico causatogli dal recupero di due gemelli senza vita praticamente spirati tra le sue braccia, nelle ore successive alla scossa del 23 novembre.

«Eravamo tutti e due a rione Ferrovia, alla fine di via Francesco Tedesco la mattina del 24, dopo una notte a scavare tra le macerie di una casa distrutta - dicono scambiandosi la voce nel racconto - quando capimmo che per la famiglia sotto, padre, madre e due bambini, non c'era niente da fare. Ma volevamo tentare ancora. Passò una macchina importante, scese un signore dai capelli ricci, era il portiere dell'Avellino di allora: Stefano Tacconi. Si mise con noi al lavoro. Ci disse: che devo fare? Gli chiedemmo di stare all'erta, di guardare se uno spuntone di muro crollato sotto al quale lavoravamo si muovesse mentre spalavamo. Rimase lì con noi a darci una mano come poteva».

Nicola quando si rimise in marcia aveva la famiglia alla Corea, i suoi li aveva sistemati vicino ad un falò nella notte, mentre correva appresso alle emergenze. Francesco invece doveva fare i conti con lo scherzo del destino: la porta blindata di casa sua s'era bloccata e dovette chiamare i colleghi con i quali riuscì a sfondare l'ingresso. «Era una porta che avevamo appena messo io e mia moglie, fu un bel danno, ma riuscii a tirare fuori la mia giovane sposa», dice. Poi in strada a via Cascino i due trovano 50 mila lire, volevano consegnarla a un carabiniere, lui disse: non ho tempo per fare il verbale. «A piazza Libertà c'era un vecchietto con lo scialle. Gli chiedemmo: hai fatto colazione? Lui era spaesato e gli demmo quei soldi. Forse commettemmo un reato», dicono complici Nicola e Francesco. C'è spazio per un nome noto: Giuseppe Zamberletti, ad Avellino che parlava ai sindaci. Nicola, ferito per un caduta, si vide decurtata nei giorni di assenza l'indennità di rischio. Con la divisa indossata a metà e il braccio ingessato andò alla riunione e portò la busta paga al ministro: «Sono ferito per servizio e ci togliete l'indennità di rischio». Il politico di alto rango disse «Non è possibile», ma tornando a Roma si dimenticò - a detta di Nicola - dell'incongruenza della norma.



C'era in caserma il comandante Felice Visone, un grande dirigente. «Ci chiedeva se ce la sentivamo di ripartire ancora appena tornati da un intervento. Noi senza mangiare e senza dormire ripartivamo».

Quella volta a San Michele di Serino lo choc per Nicola. «Avevamo saputo dei bimbi, i gemellini, finiti sotto le macerie. Io cominciai a scavare. Tra me e loro c'era incastrato un grande televisore, per paura che crollasse tutto non lo sfondai, lo smontai un pezzo alla volta- Tirai fuori il primo bimbo che spirò subito, la seconda era una bimba bionda. Anche lei mi morì tra le braccia. Fuori, il padre si avvicinò e mi sputò in faccia». Io sulla via del ritorno comincia a tremare, mi ricoverarono in un ospedale da campo del Policlinico di Pisa installato allo stadio. Una puntura e m'addormentai per ore. Al risveglio quel padre disperato era vicino a me in caserma e m'abbracciava. Per anni sono andato da un medico per farmi curare i nervi. Quella storia non la dimentico».

Nicola porta i fiori sulla bara di quei bambini. Ma di storie di bimbi si popola la memoria dei due pompieri. Come quella piccola di Lioni che i genitori ritrovati in piena campagna tenevano su una balla di fieno: «Tornai ad Avellino e con la 124 rossa dei vigili del fuoco caricai il primario dell'ospedale Capone, Corrado Giordano, raccontai che i genitori non volevano lasciarla trasportare ad Avellino lui salì in macchina con me, la prese minacciando i genitori: deve essere ricoverata, altrimenti...».

Tornammo di corsa in città. La tragedia lasciava spiragli alla speranza quando le porte si aprivano anche per accogliere quei vigili stanchi e affamati: «Una donna San Mango - dove arrivammo con la Campagnola che camminava direttamente sui tegole che lastricavano la strada - ci accolse e ci fece il sugo di castrato. Mangiavamo felici come bambini. Fuori era come in guerra».
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