Pedofilo ucciso nel Sannio,
la pista: vendetta dopo dieci anni

Pedofilo ucciso nel Sannio, la pista: vendetta dopo dieci anni
di Gigi Di Fiore
Sabato 21 Luglio 2018, 07:30 - Ultimo agg. 14:19
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Inviato a Frasso Telesino 

Solo una cinquantina di metri separano le case rurali degli Iorillo e dei Matarazzo. Dieci anni di doppie tragedie hanno avuto per scenario via Bocca con i terreni di olivi che la circondano. Solo da 19 giorni, Giuseppe Matarazzo, 45enne, era uscito dal carcere. Aveva scontato la condanna per violenza carnale su Michela, la quindicenne che il sei gennaio di dieci anni fa, lasciando una lettera di spiegazioni a lui indirizzata, si era impiccata con una corda di nylon non lontano dalla casa di famiglia. Una storia drammatica, dai contorni torbidi e conseguenze psicologiche devastanti per tutti i protagonisti.

Il condannato per violenza sessuale nei confronti di una ragazzina, allora non ancora quattordicenne, esce dal carcere. Torna a casa, a pochi metri dalla famiglia parte civile nel suo processo e, dopo pochi giorni, viene ucciso in circostanze da vera esecuzione, come hanno ricostruito i carabinieri del comando provinciale su delega della Procura di Benevento. La casa rurale dei Matarazzo ha un trattore fermo, uno scalone che dà al primo piano e scende verso un'ampia aia. L'altra sera, Giuseppe e la mamma Evelina erano proprio qui fuori. Si è avvicinata una Bmw nera con due uomini. «Sapete indicarci la strada per Montesarchio? Ci siamo persi» dicono. Ricevono l'informazione, poi quando Giuseppe si gira per raggiungere la madre e salire in casa, sparano con una P38. Cinque colpi, due raggiungono il bersaglio. L'auto parte di corsa, mentre da casa scende Pasquale il papà di Giuseppe e poi arriva anche Teresa, la sorella. Tentano di soccorrerlo, ma non c'è nulla da fare.
 
«Non possiamo sapere chi è stato, ma secondo noi è una vendetta» dicono i Matarazzo al loro legale, l'avvocato Antonio Leone. Dal processo, hanno sempre urlato l'innocenza di Giuseppe, anche dopo la condanna. Teresa voleva cercare una strada per chiedere la revisione e lo aveva ripetuto al difensore del dibattimento, l'avvocato Vittorio Fucci. Una convinzione, in contrasto con le ferite ancora aperte della famiglia Iorillo. Da dieci anni, brucia il suicidio di Michela. Brucia anche quella lettera, indirizzata a Giuseppe, in cui cerca di spiegare quella che definisce «una pazzia». Scriveva Michela: «Hai ragione, io e tu non potremmo mai stare insieme, il solo pensiero che finirà mi fa impazzire, non riesco a pensare che quello che ho sempre desiderato, per colpa dei miei debba finire. Così ho deciso che la cosa migliore è farla finita». L'annuncio di una morte, cercata appesa ad un albero a pochi metri da casa. Iorillo e Matarazzo, famiglie di pastori e agricoltori, famiglie semplici, con valori saldi e dalle poche parole. In questi dieci anni, attraversati dal suicidio di Michela, l'arresto e il processo di Giuseppe, con la sua condanna e il carcere, le tensioni in via Bocca non si sono mai spente. Le due famiglie si sono ignorate, ricostruendosi ognuno una rete e una vita di nuovi affetti e speranze. Giuseppe aveva avuto una relazione con Cristina, la sorella maggiore di Michela. E proprio Cristina, al processo, aveva dichiarato nell'udienza del 30 giugno 2010: «Chiesi a mia sorella, che me lo negò, se oltre all'amicizia con lui ci fosse dell'altro». E ancora: «Mi escluse che ci fosse stato quello che immaginavo». Giuseppe ha sempre ripetuto che con Michela aveva avuto un «rapporto d'affetto platonico». Aveva ricevuto la condanna, aggravata in appello e scontata in carcere a Napoli. Da quando era uscito a fine giugno, a qualcuno aveva confidato di volere una riabilitazione, di voler rimettere in discussione quella macchia infamante. I carabinieri indagano e ipotizzano la pista di una vendetta legata al suicidio di Michela. Ma non escludono altre ipotesi. Una è legata alle conoscenze e ai contatti che, in carcere, ha potuto intrecciare Giuseppe. E intanto, nella breve traiettoria delle case Iorillo e Matarazzo, il dolore sembra non avere mai fine.
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