Nozioni di botanica politica

Nozioni di botanica politica
Venerdì 27 Luglio 2018, 14:10
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Che cento fiori fioriscano, che cento scuole di pensiero gareggino
(Mao Zedong, rivoluzionario, politico, filosofo e dittatore)


Leggi: GIGLIO MAGICO. E resti lì, perplesso a metà. Certo, in un paese come l’Italia, il cui simbolo d’unità nazionale è il corbezzolo - con le sue foglie verdi, i suoi fiori bianchi e le sue bacche rosse - non può meravigliare il rigoglio di una fitta e colorata vegetazione nella camera del potere. La botanica politica nostrana è un vivaio sempre in fiore, dal garofano rosso di Bettino Craxi al Biancofiore della vecchia Dc, fino ai più recenti richiami petalosi, dalla margherita alla peonia. Dunque, l’espressione giglio magico - per un verso - non sembra destinata a spaventare: in politica un giglio ci può stare. Però quell’altra metà del binomio suscita curiosità. Perché mai quel giglio è magico? Si allude forse ad una delle 80 specie della pianta che conosciamo? C'è di mezzo qualche rituale occulto riconducibile a massonerie di vario genere o al nuovo ordine mondiale come spesso ai complottisti piace pensare?



In principio fu il cerchio magico del Senatur. Perché il gergo giornalistico aveva necessità di bollare la consuetudine dello storico leader della Lega Umberto Bossi nel circondarsi di un gruppo ristretto di uomini di fiducia selezionati tra i più fedeli amici. E nel mondo dell’informazione politica divenne gioco facile pescare nell’immaginario della religione celtica, in particolare nel druidismo, al quale in qualche modo i militanti del Carroccio già attingevano copiosamente: ricordate il rito dell’ampolla del Po? In fondo a quell’immagine c’è l’archetipo del cerchio, che nei cerimoniali magici - a partire dal Medioevo - veniva tracciato come forma di protezione dalle energie negative provenienti dall’esterno e assurgeva a simbolo di armonia, pienezza, perfezione. Simbolo talmente radicato da divenire per la psicanalisi di Carl Gustav Jung l’archetipo del Sé.



Ebbene, di lì l’importazione del binomio dalla Lega ai Democratici il passo fu breve quando da una parte a via Bellerio cominciarono le rogne giudiziarie - considerate figlie degenerate di quel sistema di potere così ristretto - e dall’altra alla guida del Nazareno sbarcò dalla pianura padana, bonario e però guardingo, il piacentino di Bettola Pier Luigi Bersani, che di nessun altro si fidava se non di tre conterranei, cioè di Maurizio Migliavacca, pure lui piacentino ma di Fiorenzuola d’Arda, il romagnolo di Massa Lombarda Vasco Errani e il modenese Stefano Bonaccini. Fu così che con ironia la notista politica del Corriere della Sera Maria Teresa Meli prese a scrivere del “tortellino magico”.



D’altronde, come ricorderà più tardi Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera (31 luglio 2014) la storia della politica italiana è costellata da casi analoghi: dalla Brigata Sassari di Francesco Cossiga al cosidetto clan degli avellinesi di Ciriaco De Mita fino alla Corte arcoriana di Silvio Berlusconi.
Qui finisce la preistoria. La cronaca più o meno contemporanea comincia il 22 febbraio del 2014, quando Matteo Renzi conquista la presidenza del Consiglio e trasloca la mappa del potere da Palazzo Vecchio a Palazzo Chigi. Assai complesso descriverla in ogni dettaglio: a confronto la mappa del Piri Reis è di più immediata lettura. Utile, al fine di delineare un quadro generale, la ripartizione offerta da Claudio Cerasa sul Foglio del 30 settembre 2014, quando si fa distinzione tra fiorentini puri (Luca Lotti da Empoli, Maria Elena Boschi da Montevarchi, Francesco Bonifazi di Firenze centro e Dario Nardella da Torre del Greco), fiorentini acquisiti (Lorenzo Guerini e Filippo Sensi), i diversamente fiorentini (come Graziano Delrio).



E poi, grazie alle ricostruzioni successive realizzate ancora dal Foglio e dall’Huffington post, si possono individuare altri segmenti: non furono certo renziani della prima ora, ma lo diventarono Ivan Scalfarotto e Antonello Giacomelli, gli ex avversari Lapo Pistelli e quel Gabriele Toccafondi transitato dal consiglio comunale di Firenze al governo passando da Fi e Pdl a Ncd e Ap. Senza dimenticare collaboratori preziosi come Roberto Reggi, già capo della comunicazione elettorale di Renzi nel 2012, e Angelo Rughetti. Più recenti gli avvicinamenti di Matteo Orfini, Ettore Rosato, Andrea Marcucci.

Ad altri livelli vanno poi ricordati Domenico Manzione, fratello di Antonella, capo dei vigili e direttore generale a Palazzo Vecchio e capo dell’ufficio legislativo di Palazzo Chigi. L’ex consigliere regionale in Toscana Erasmo D’Angelis, già presidente di Publiacqua a Firenze. Il fotografo incaricato delle pose istituzionali, Tiberio Barchielli, operativo fin dai tempi di Rignano sull’Arno. Quindi il tuttofare “franchino”, ovvero Franco Bellacci, che ha cominciato da quando si era alla provincia di Firenze. Così come la storica segretaria Eleonora Chierichetti. C’è l’ex assessore a San Miniato poi addetto alla corrispondenza Pilade Cantini. Il già capo di gabinetto a Firenze e capo della segreteria politica a Palazzo Chigi Giovanni Palumbo. L’ex assessore comunale ai trasporti Filippo Bonaccorsi, passato alla guida della struttura tecnica di missione per l’edilizia scolastica nel governo Renzi.

Petali di un giglio magico che non si è del tutto appassito nel dicembre 2016, quando Renzi ha detto addio a Palazzo Chigi. La leadership dell’ex sindaco fiorentino è ancora salda tra i Democratici. E almeno fino al congresso quella mappa può essere ancora utile per orizzontarsi nella camera del potere.

corrado.castiglione@ilmattino.it
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