Maledetto spread

Maledetto spread
Mercoledì 23 Maggio 2018, 15:07 - Ultimo agg. 25 Maggio, 20:15
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Un operaio conosce 100 parole, il padrone 1000. Per questo lui è il padrone
(Lorenzo Milani, prete, docente e scrittore)


Riecco lo SPREAD. Ricompare all’improvviso come un animaletto dispettoso che sembra tanto ricordare - forse per via di quella vaga assonanza - il topolino messicano di Looney Tunes che gioca a nascondersi, per poi riapparire a suo piacimento. Illusi noi, che avevamo creduto fosse scivolato per sempre in una caditoia. Eppure solo qualche tempo fa, nel 2014, aveva cominciato a crederlo anche il linguista e accademico della Crusca Gian Luigi Beccaria, che in «L’Italiano in 100 parole» si era chiesto: «Quanto durerà la fortuna verbale di spread? L’anglismo, da un po’ di tempo noto anche a chi non ha nulla a che vedere con la finanza, parola diventata simbolo della crisi economico-finanziaria dell’Europa, finirà pure un giorno di tormentare, e cadrà finalmente nel dimenticatoio».



Invece non è andata così, perché forse lo spread si era semplicemente nascosto dopo il tragico 2011, quando Silvio Berlusconi cedeva la campanella di Palazzo Chigi a Mario Monti, e ricompare ora forse spaventato da una possibile, inedita e per molti improbabile alleanza di governo, mentre il Blog delle Stelle già grida alla fake news, cita William Shakespeare («tanto rumore per nulla») e parla di «fisiologiche oscillazioni», sebbene gli analisti finanziari non la pensino esattamente così.

Oppure si fa vivo anche perché vanno ad affievolirsi i benefici del Quantitative easing, un’altra parolaccia che vuole significare l’azione della Banca centrale europea che immette liquidità nel sistema finanziario, tramite l’acquisto di titoli di Stato e di altre obbligazioni. Un programma dall’obiettivo dichiarato di far ripartire il credito delle banche all’economia reale. Un programma che però vede da quest’anno dimezzata l’iniezione di liquidità.

Dici spread e prende corpo uno di quei mostri legati alla finanza internazionale - come rating, default, swap, outlook, downgrade - a noi estranei. Anzi, doppiamente estranei, osserva la linguista dell’Accademia della Crusca Matilde Paoli: perché sono voci anglo-americane e perché vengono dalla finanza, «un mondo di cui conosciamo l’esistenza, ma che fino a non molto tempo fa sembrava una sorta di iperuranio irraggiungibile che, tutto sommato, non ci riguardava più di tanto. Ora quel mondo è sceso tra noi e ci assale a colpi di spread».



La parola, che originariamente in inglese significa la differenza tra due misure o prezzi, viene utilizzata per descrivere la differenza tra il rendimento dei Buoni del tesoro nazionali a lungo termine (i nostri Btp) e quello dei corrispondenti Bund tedeschi, che costituiscono il riferimento più importante vista la solidità dell’economia di Berlino. In buona sostanza: lo Stato mette all’asta i suoi Btp e chiede all’investitore di comprare quote del proprio debito pubblico. Un’operazione che consente di recuperare liquidità. Il patto è che alla scadenza l’investitore tornerà in possesso del proprio capitale, mentre già prima periodicamente incasserà le cedole di rendimento. Ed è su questo che si va a misurare lo spread. Se dal confronto lo spread si alza ecco che giunge il segnale: i mercati non hanno fiducia e chiedono interessi maggiori per investire denaro nel nostro debito pubblico.

Se abbiamo una percezione negativa dello spread è perché lo associamo ad un particolare momento della crisi economica che conosce l’esplosione nel 2011: quando gli effetti della crisi immobiliare negli States (inizia nel 2006, ma è nel 2008 che i risparmiatori cominciano a non pagare più i mutui) e del crollo delle borse investono anche l’economia reale in tutto il mondo, riverberandosi pure in Europa con la crisi dei debiti pubblici in alcuni stati, tra i quali l’Italia.

Ne scaturisce anche una crisi politica del sistema Italia, nonostante i numeri blindati della maggioranza parlamentare, che culmina con le dimissioni di Silvio Berlusconi (novembre 2011) da presidente del Consiglio e con l’investitura del “governo dei professori” guidato dal neo-senatore a vita Monti, detto anche SuperMario per le aspettative che l’Italia (e i mercati) riporranno su di lui.



Intorno a questo passaggio si è molto discusso e scritto. Negli ambienti di centrodestra prevarrà la tesi complottista, ben esplicata nei tre volumi di Renato Brunetta «Il grande imbroglio», pubblicati dal 2012 al 2014. Ma tracce sono presenti anche altrove, riferite alle consultazioni informali che sarebbero avvenute nell’estate 2011 al Quirinale per sostituire Berlusconi a Palazzo Chigi. Se ne parla nel libro «Il palazzo e la politica» (2012) di Bruno Vespa, che conferma l’incontro tra Romano Prodi e Monti negli uffici di quest’ultimo all’università Bocconi. Anche nel libro «Il Dilemma, 600 giorni da vertigine» (2013) di José Luis Rodrìguez Zapatero, emerge che al G20 di Cannes del 3 e 4 novembre 2011 si riferiva con insistenza di Monti come imminente successore di Berlusconi alla guida del governo italiano. Così come del «complotto» di Germania e Francia nei confronti del governo Berlusconi parla l’economista Lorenzo Bini Smaghi nel libro «Morire di austerità» (2013). Per finire al volume (2014) di Alan Friedman dal titolo «Ammazziamo il gattopardo» (si allude alla più complessiva esigenza di rinnovamento nel Paese, e dunque non va confuso con l’espressione di Pierluigi Bersani, «smacchiamo il giaguaro»). Laddove il giornalista statunitense conversa con cinque ex premier (Giuliano Amato, Silvio Berlusconi, Romano Prodi, Massimo D’Alema e Mario Monti) e l’astro nascente del Pd, Matteo Renzi. E torna la tesi del complotto ordito, secondo Friedman, da Giorgio Napolitano.

Dal canto suo, il presidente della Repubblica emerito smentirà queste ricostruzioni e dichiarerà chiaro e tondo: «Nessun complotto, solo fumo. Il governo Berlusconi era in fase di logoramento. Monti era una risorsa da tenere in considerazione». Parole che Napolitano spende in una lettera inviata il 10 febbraio 2014 al Corriere della Sera, quotidiano dell’editore che ha pubblicato il volume.

Al di là di come siano andate effettivamente le cose, è incontrovertibile il fatto che la parola spread rievochi un clima di grande tensione emotiva. E che l’effetto dei media in Italia sia davvero ansiogeno lo si deduce da un dato quantitativo, che la linguista Paoli riassume così: una ricerca effettuata su Google ancora in un periodo “rovente” (1 febbraio 2012) della sequenza le spread in lingua francese ha dato come risultato 265.000 occorrenze; analogo risultato si ottiene cercando el spread in lingua spagnola (272.000); mentre digitando lo spread in italiano la cifra sale a 1.730.000. Eppure sia la stampa francese sia quella spagnola hanno usato la forma, benché con maggior moderazione rispetto alla stampa italiana e con qualche differenza: in Francia spread compare anche nei titoli benché tra virgolette e, raramente, affiancato nel corpo dell’articolo dall’equivalente écart de rendement; in Spagna invece lo si trova soprattutto all’interno degli articoli in corsivo e con traduzione tra parentesi, mentre nei titoli appare spesso il corrispettivo in lingua spagnola prima de riesgo. E qui da noi? Solo un dato tratto dal sito Primapagina.com: 79 articoli parlano di spread tra venerdì 27 e domenica 29 gennaio 2012.

Invero, la parola spread aveva fatto la sua comparsa nell’uso della lingua italiana prima della grande recessione, già sul finire del Novecento. Il Dizionario italiano Sabatini e Colletti (1997) e il Grande Dizionario italiano dell’uso, curato da Tullio De Mauro (2000) riconducono il prestito dalla lingua inglese al ‘91, nel significato di «scarto fra due tassi d’interesse».

corrado.castiglione@ilmattino.it
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