Cent'anni di Me ne frego

Dal documentario di Vanni Gandolfo (2014)
Dal documentario di Vanni Gandolfo (2014)
Mercoledì 17 Ottobre 2018, 17:06 - Ultimo agg. 12 Novembre, 13:28
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In questo Paese troppe cose sembrano essere già irrimediabilmente successe
(Michele Serra, giornalista, scrittore e umorista italiano)

Dal suolo italico si levano tre parole e d’improvviso riappaiono fantasmi forse, anzi certamente mai sopiti.
«Me ne frego», dice Matteo Salvini, se l’Europa boccia la manovra di bilancio.
Non che sia la prima volta. Da Roma a Bruxelles e ritorno può accadere che volino parole grosse. E’ già capitato quando Jean Claude Juncker indirizzò all’allora premier Matteo Renzi un accorato «Je m’en fous». Ma, diciamolo: in francese pure una trivialità suona bene. Mentre qui e ora le stesse parole risvegliano altre percezioni.



Se vivessimo ancora in quella bolla di pace apparente che fu la Guerra Fredda, verrebbe anche di sorridere. Totò aveva provato e c’era riuscito, sia in Totò Diabolicus (1962) - quando nelle vesti del generale Scipione con un gesto plateale manifesta di fregarsene della morte del fratello marchese Galeazzo di Torrealta - sia in I due colonnelli (1963), laddove in una serie di siparietti con Walter Pidgeon il colonnello Antonio Di Maggio dichiara di infischiarsene della Convenzione di Ginevra.
Ma Totò non fa testo: lui il regime l’aveva sfidato per tempo, giungendo anche a beccarsi la denuncia di un gerarca per la gag GaliLei-GaliVoi che poi lo stesso Mussolini archiviò con la dicitura «Fesserie». D’altronde anche Ettore Petrolini ci aveva sorriso, a modo suo, quando nel ricevere una medaglia dal Duce aveva sbottato: «E io me ne fregio».

In ogni caso viviamo un altro tempo. Non sono più gli anni nei quali la satira ha sdoganato quelle tre parole consacrate dall’immaginario fascista per consegnarle all’uso comune. Il ritorno delle estreme destre e l’avvento dei populismi in mezza Europa ha mutato l'orizzonte e nel nostro Paese, che non ha mai praticato la strada della pacificazione, una nuova stagione di conflittualità minaccia sempre di aprirsi. Inoltre è lontana l’eco delle parole di don Lorenzo Milani nella Lettera ai giudici: «Ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande I care. E’ il motto intraducibile dei giovani americani migliori. "Me ne importa, mi sta a cuore". E’ il contrario esatto del motto fascista ‘Me ne frego’».
Soprattutto - a manovra di bilancio varata - la concomitante immagine dei parlamentari del partito di maggioranza festanti dal balcone di stato con folla plaudente fa venire altre idee. Per carità, senza scomodare Albert Camus: ricordate? «(il dottore Rieux) sapeva che il bacillo della peste non muore né scompare mai». Ecco perché diventa necessario ripercorrerla tutta la storia che porta dritto a cent’anni fa, per imparare a distinguere il significato originario quasi stoico del grido di battaglia dalle mutazioni successive.

La prima figura che ci viene incontro è quella di Benito Amilcare Andrea Mussolini, giornalista, politico e dittatore italiano, fondatore del fascismo e presidente del Consiglio del Regno d'Italia dal 31 ottobre 1922 al 25 luglio 1943.
Mussolini nel ‘32 teorizzò il significato di quelle tre parole, alla voce Fascismo che insieme a Giovanni Gentile ebbe a redigere per il volume XIV dell’Enciclopedia italiana: «L’orgoglioso motto squadrista Me ne frego, scritto sulle bende di una ferita, è un atto di filosofia non soltanto stoica, è il sunto di una dottrina non soltanto politica: è l’educazione al combattimento, l’accettazione dei rischi che esso comporta, è un nuovo stile di vita italiano».
«Me ne frego», dunque, come filosofia di vita. Non a caso è così che il regista Vanni Gandolfo nel 2014 ha intitolato il documentario prodotto da Luce Cinecittà in cui insieme alla linguista Valeria Della Valle narra la storia linguistica dell’Italia fascista tra la campagna contro i dialetti, la lotta alle parole straniere in nome dell'autarchia linguistica, la repressione delle minoranze linguistiche, la sostituzione del pronome voi al pronome allocutivo lei.



Ebbene, senza entrare nel merito della teoria filosofica e politica del «Me ne frego», proviamo a seguire quella traccia come un filo d’Arianna e procediamo a ritroso per capire quando, come, dove, perché e chi disse per la prima volta quelle tre parole.
Mussolini parla di motto squadrista perché effettivamente nelle squadre d’azione gli ex combattenti, in particolare gli Arditi in congedo (reparto speciale d’assalto del Regio esercito), riversarono dalla Prima guerra mondiale e dalla deludente vittoria mutilata un portato di simboli e segni che poi contribuiranno a completare l’iconografia degli squadristi fascisti: il fez nero (ma andavano bene anche gli elmetti usati in trincea), la camicia nera con il teschio dal pugnale fra i denti cucito sul petto in filo d’argento, il saluto «A noi» (accompagnato però dal pugno chiuso, sì, perché nella Capitale le squadre raccolsero anche adesioni di comunisti, socialisti e anarchici).
La missione delle squadre d’azione? Agire in contrapposizione alle leghe socialiste nate tra il 1919 e il 1920 nel biennio rosso (del quale abbiamo già parlato), magari disperdendo le organizzazioni sindacali o dando alle fiamme le redazioni dei giornali d’opposizione. Con la benedizione delle forze dell’ordine, quando le elezioni del maggio ‘21 consacrarono l’approdo alla Camera di fascisti e nazionalisti.

Dunque è chiaro: «Me ne frego» è figlio della prima guerra mondiale e trova il brodo di coltura per propagarsi nelle tensioni dell’immediato dopoguerra. Ma andiamo ancora più indietro. Il prezioso volume di Antonello Capurso (Le frasi celebri nella storia d’Italia) riferisce che i soldati del corpo degli Arditi avevano l’abitudine di scrivere quella frase sulle bende impiegate per fasciare le ferite, come incitamento a proseguire nei combattimenti nonostante le difficoltà. Poco più tardi «Me ne frego» sarà stampato sui manifestini lanciati su Trieste dagli aviatori della squadra del Carnaro. E Gabriele D’Annunzio otterrà che l’espressione sia ricamata in oro al centro del gagliardetto della squadriglia di autoblindo fiumana. Nel proclama del Sacco di Fiume (11 gennaio 1920) scriverà: «Il motto è crudo. Ma a Fiume la mia gente non ha paura di nulla, neppure delle parole».



Per chi cerca una data precisa si può individuare il periodo che va dall’estate del 1917 a quella successiva. Il 29 luglio 1917, infatti, il reparto degli Arditi viene istituito su disposizione di Vittorio Emanuele III come corpo speciale d’assalto con un addestramento largamente superiore a quello dei normali soldati, sullo stampo di quanto un paio d’anni prima aveva già cominciato a sperimentare l’esercito tedesco con le Stosstruppen. Mentre il 15 giugno 1918, in quella che D’Annunzio ribattezzò la Battaglia del Solstizio, accadde che al Maggiore Freguglia che gli assegnava una missione suicida da portare a termine ad ogni costo il Capitano Zaninelli rispose: «Signor comandante io me ne frego, si fa ciò che si ha da fare per il re e per la patria» prima di andare incontro alla morte.

Curiosità: il motto sopravvive al nono reggimento d’assalto paracadutisti, considerato il reparto diretto discendente degli Arditi ormai sciolti. Recita così: «Me ne frego del dolore / Me ne frego della fatica / Me ne frego dei sacrifici / Me ne frego della mia ideologia politica o del mio credo religioso / perché faccio quello che l’autorità militare mi ordina di fare».

corrado.castiglione@ilmattino.it
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