Chi ha paura della democratura?

Chi ha paura della democratura?
Lunedì 12 Novembre 2018, 15:09 - Ultimo agg. 18:56
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La dictadura perfecta no es el comunismo, no es la Urss, no es Fidel Castro. La dictadura perfecta es Mexico. Es la dictadura camuflada
(Mario Vargas Llosa, scrittore, drammaturgo e politico peruviano)


La parola democratura non suonerà granché bene ma, come osservava Marino Sinibaldi in un corsivo su 7Corriere, esprime perfettamente la mostruosità dell’intreccio di caratteri democratici e autoritari o dittatoriali. Perché dalla crasi - effettivamente orrenda dal punto di vista estetico - delle parole democrazia e dittatura nasce il termine per indicare, recita il vocabolario Treccani, un regime politico improntato alle regole formali della democrazia, ma ispirato nei comportamenti a un autoritarismo sostanziale.



Il neologismo ha almeno trent’anni di vita e la paternità è molto discussa. A contendersela due grandi intellettuali del nostro tempo scomparsi di recente: lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano (1940-2015) e il saggista croato Predrag Matvejevic (1932-2017). Invero c’è anche un altro studioso che viene comunemente tirato in ballo. E’ l’economista, sociologo e politologo svizzero Max Liniger Goumaz, considerato uno dei massimi esperti in tema di Guinea equatoriale,  che nel ‘92 pubblica il saggio dal titolo «La democrature: dictature camouflee, democratie truquee». Ma Goumaz sin dalle prime pagine del libro riconosce la paternità a Galeano. Come d’altronde faranno più tardi fra gli altri lo storico Andrea Riccardi e lo studioso Mauro Burato, il quale in «Visioni latinoamericane» (luglio 2010) riferisce dell’intuizione di Galeano «per descrivere la convivenza di elementi democratici e autoritari all’interno di un modello che potremmo definire come democrazia ristretta o in altri termini dittatura costituzionale».



Poeta raffinato e arguto saggista, Galeano fu instancabile autore di denunce delle diseguaglianze economiche con particolare riferimento al Sudamerica, fino ad assumere toni da utopista, da visionario, come quando scrive che «l’economia mondiale è la più efficiente espressione del crimine organizzato». E ancora: «La democrazia è un lusso del nord. Nel sud si esibisce in teatro: lo spettacolo non si nega a nessuno e poi non dà fastidio a nessuno che la politica sia democratica, basta che non sia democratica l’economia. Quando i voti sono già tutti nelle urne e cala il sipario, la realtà impone la legge del più forte, cioè a dire la legge del denaro».



Per quanto forse da queste parti Galeano sia più noto per quel godibilissimo volume dal titolo «Splendori e miserie del gioco del calcio» (1995), eppure uno dei lasciti più preziosi dello scrittore uruguayano è «Le vene aperte dell’America Latina» (1971) che subì la censura della dittatura cilena e di quella argentina come strumento di corruzione della gioventù. E’ qui che Galeano utilizza il termine democratura come «il riciclarsi delle dittature sotto forma di finte democrazie».

Considerando che Che Guevara viene ucciso nel ‘67, nello stesso anno esce «Cent’anni di solitudine» e la fine di Salvador Allende nel ‘73 «Le vene aperte dell’America Latina» è autentico spartiacque nella storia non solo letteraria del Sudamerica. Se ne accorsero con un po’ di ritardo anche le cronache quando il 17 aprile 2009, al vertice delle Americhe di Port of Spain, Chavez regalò a Obama il libro per rammentargli le secolari malefatte degli States nel “cortile di casa”. Un gesto che all’improvviso consentì al volume di scalare le classifiche di Amazon dal 54.925 posto al secondo.



Interessante anche l’analisi di Matvejevic, personalità complessa e poliedrica almeno quanto le sue origini: nasce ai tempi della ex Jugoslavia a Mostar, in terra bosniaca, si stabilisce in Croazia e poi viene naturalizzato italiano. Per Matvejevic sono democrature «quei regimi, formalmente democratici, in realtà oligarchici». L’autore di «Breviario mediterraneo» (‘87) e dell’«Epistolario dall’altra Europa» (‘94) pensava in particolare modo ai Paesi del socialismo reale, ma in anni più recenti, non senza amarezza, individuava tracce di democratura anche nell’Europa liberale e socialdemocratica.



In un pezzo per Repubblica Matvejevic spiegava: «Ho coniato questo termine anni fa per definire l’ibrido tra democrazia e dittatura. Un populismo penoso è sempre stato pronto a sostenere regimi di questo tipo. La laicità è stata poco popolare in questa parte di mondo. Il “giocattolo nazionale” non ha mai perso la sua attrattiva. La cultura nazionale si converte facilmente in ideologia della nazione e sbocca su progetti nazionalisti».

Di fronte all’uruguaiano Galeano e al croato Matvejevic merita attenzione un’osservazione dell'opinionista Roberto Pecchioli: «La distanza geografica e culturale dei due intellettuali che hanno coniato il neologismo è la prova che entrambi da punti di osservazione assai diversi - il Sudamerica ribollente di umori radicali per l’uno, l’Europa orientale uscita dalla cappa sovietica per l’altro - hanno colto un punto centrale della nostra era, quello della vittoria storica del modello economico sociale liberista fondato sul predominio della finanza e sulla conseguente spoliticizzazione dell’esistenza».

Non è un caso se il termine viene utilizzato per l’Ungheria di Viktor Orban come per la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, per la Polonia di Beata Sdyzlo come per Cuba di Raul Castro e come per la Russia di Vladimir Putin.

Ma sarebbe sbagliato pensare che democrature siano derive possibili soltanto lontano da noi, in Africa, in Sudamerica o nell’est europeo. Prova ne sia ad esempio che il termine sarà utilizzato anche qui dal giurista Giovanni Sartori per designare una forma anomala di democrazia parlamentare nella quale attraverso una serie di artefizi (come premio di maggioranza e liste bloccate) più o meno surrettizi, si gettano le basi per instaurare quella che viene comunemente già definita “dittatura della maggioranza”.

Da qualche tempo circola una conclusione che fa riflettere. E' di Bernard Guetta, apprezzato giornalista francese esperto di geopolitica: «Non esistono più dittature militari in America Latina né paesi comunisti o fascisti in Europa, mentre le libertà e lo Stato di diritto fanno piccoli ma significativi passi avanti in Africa. Insomma, non c’è motivo per vedere tutto nero, anche perché il numero crescente di democrature significa che poche dittature accettano di presentarsi come tali». Osservazione che sembrerebbe arguta, se non fosse che neppure la catechesi cattolica propugna più un diavolo dalla coda di drago, col forcone e le corna. Resta dunque il dubbio: basterà il ricorso al camuffamento a rendere gli scenari meno bui e sinistri?

corrado.castiglione@ilmattino.it
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