Astruso e oscuro:
è il giornalese, bellezza!

Un immagine del Transatlantico di Montecitorio
Un’immagine del Transatlantico di Montecitorio
Mercoledì 4 Aprile 2018, 01:33 - Ultimo agg. 18 Maggio, 12:15
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Se è estraneo al mondo l’uomo
che non conosce le cose
che vi si trovano,
non meno estraneo è colui
che non sa interpretare
ciò che vi si svolge

(Marco Aurelio, imperatore, filosofo e scrittore romano)



In politica esistono Caminetti che non scaldano, Colombe e Falchi che non volano, poi Trote e Delfini che non guizzano, Gigli che non profumano, oltre le ben note Parallele convergenti.
L’addetto ai lavori lo sa bene e dunque non storca il naso. Il neofita, il curioso invece non si stupisca e, anzi, si faccia avanti senza paura, armato di buona volontà: è il giornalese, bellezza! Che sopravvive come un’evoluzione dello slang politichese, seppure i tempi siano cambiati, i giornali non sfornino più i “pastoni” di una volta e l’accesso all’informazione sia libero e gratuito.
Hanno un bel dire gli esperti che il politichese sia morto e sepolto. Il linguista Luca Serianni addirittura ne scorgeva con nettezza il tramonto nella discesa in campo di Silvio Berlusconi, ovvero in quella congiuntura della vita del Paese nella quale, da una parte, i tormenti dei partiti sconvolti da Tangentopoli e, dall’altra, l’avvento del maggioritario spingevano i politici ad uscire dalla cortina delle posizioni sfumate e dei concetti annacquati tipici dell’antico linguaggio per lasciare spazio ad un modo più diretto di parlare ai cittadini.
Non solo: è indubbio che dalle convergenze parallele di Aldo Moro agli annunci in pompa magna di Berlusconi, sia cambiato del tutto anche il contenuto del messaggio politico.Tuttavia nel mondo dell’informazione resistono residui d’un linguaggio oscuro che si autoalimenta in un circuito vizioso media-politica: è il “giornalese”, ne parla Gian Luigi Beccaria in maniera seducente e gustosa come ai tempi in cui deliziava i telespettatori alla Rai con Luciano Rispoli in “Parola mia”. Residui di linguaggio che resistono non solo a causa di uno schema autoreferenziale in cui il messaggio il più delle volte nasce e muore tra gli addetti ai lavori. Ma anche in virtù di un’esigenza diffusa di sintesi, che renda più netta la comunicazione e più immediato il segno seppure a costo della chiarezza. In altri casi si riscontra una sorta di decadimento, come segnala Vittorio Coletti, docente dell’università di Genova e accademico della Crusca: «Prima si cercava di parlare in pubblico meglio di come si mangiava, oggi ci si vanta di parlare come si mangia (col sottinteso che si mangia male). Si è passati da una lingua colta, forte ed esclusiva, a una lingua popolaresca, debole ed inclusiva».
L’esito è devastante considerato questo tempo segnato com’è da una più complessiva disaffezione degli individui nei confronti della politica e dall’assenza di confronto, nonché di luoghi nei quali lievitino quelle curiosità e quegli interessi che di solito sono la premessa alla partecipazione democratica. Allo stesso tempo, linguaggio a parte, va rilevata un’altra considerazione: anche la politica non sfugge alle consuetudini tipiche di ogni aspetto della vita di una comunità, perpetuando riti propri e liturgie che vanno spiegate perché non appaiano riservate a truppe di iniziati. Ne vogliamo parlare? Un esempio su tutti: cosa rappresenta la cerimonia del Ventaglio? Così accade che l’occhio profano talvolta venga catturato altre respinto, a seconda che si lasci o meno sedurre dal desiderio di conoscere quella che Otto von Bismarck definì “l’arte del possibile, la scienza del relativo”. Materia che “L’arte della diplomazia” di Henry Kissinger esalterà all’ennesima potenza.

Agli addetti ai lavori che storcono il naso, aggiungo. Certo, è possibile che il politico non voglia o non possa utilizzare un linguaggio più chiaro e di facile comprensione. Ma sarebbe bene che l’informazione facesse uno sforzo maggiore di decodificazione del messaggio. Qualche tempo fa l’ex direttore dell’Ansa Sergio Lepri individuava due motivi dell’oscurità linguistica dei giornali: la convinzione che il giornalismo attenga alla letteratura e quella che il giornalismo non sia un servizio, ma una forma di potere. Inoltre – notava Lepri – non migliora le cose la tendenza del giornalista a concepire la propria professione come un’attività aristocratica, e non come un servizio ai cittadini, come un’attività di mediazione tra il potere e la gente. 
Osservazioni acute dalla fine degli anni Ottanta. Da allora qualcosa è cambiato. Né si può ritenere casuale la circostanza che talvolta spinge alcuni quotidiani a isolare elementi grafici anche di modesto ingombro proprio al fine di mettere in luce i significati di alcune parole utilizzate negli articoli che possono ad una prima lettura sembrare oscuri o di non immediata presa. Ma si può fare sempre di più e meglio. Perché è vero, è il giornalese, bellezza. Ma non è detto che non si possa fare niente. Ecco dunque che un po’ di luce può arrivare. Così anche il neofita potrà capire perché la Balena bianca non soffia e non nuota; perché il Transatlantico non prende mai il largo; perché il Giglio magico non è roba da fiorai. E magari comincerà ad addentrarsi nel mondo della politica con agio e destrezza, fino a penetrare i segreti e i misteri più reconditi, come quello che riguarda l’uomo pipistrello, sì proprio lui, Batman: è di destra.

corrado.castiglione@ilmattino.it
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