Chinchino Compagna, la Rai e Alianello quando non c'erano i neoborbonici

Sabato 8 Novembre 2014, 15:32
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Non fu agevole la trasmissione in Rai dello sceneggiato "L'eredità della priora". Sette puntate, addirittura sul primo canale, di un lavoro con la regia del noto Anton Giulio Majano. Un'autorità televisiva di allora. Musiche, diventate di cult, di Eugenio Bennato e Carlo D'Angiò, ispirazione al romanzo scritto da Carlo Alianello in prima edizione nel 1963.

Il tema, certo, non era di facile digestione nell'Italia di allora: il brigantaggio, una vicenda familiare inserita nei giorni della marcia di Carmine Crocco verso Potenza. Alianello, padre militare italiano e nonno militare borbonico, aveva iniziato 40 anni prima una rilettura senza pregiudizi sulla caduta del regno delle Due Sicilie. Lo avevano ispirato i racconti di famiglia ed era poi andato avanti con ricerche e documenti.

Alianello, scrittore lucano di Tito, cattolico, autore di decine di libri e consulente storico persino di Luchino Visconti, emarginato dal mondo letterario per tante sue idee. Il suo romanzo "L'Alfiere", pubblicato nel 1942, fu messo al bando dal fascismo, che lo ritenne troppo disfattista in mesi di guerra: raccontava le vicende di vinti, i militari borbonici che non avevano voluto arrendersi o passare con Garibaldi. Discorsi non facili da far passare, anche 34 anni fa.

I neoborbonici non erano ancora nati, Riccardo Pazzaglia pensò a quella provocazione tredici anni dopo. Ma lo sceneggiato di Rai uno suscitò subito reazioni indignate. Fu la cultura liberale, di ispirazione crociana, a infastidirsi di più. E ne fu espressione Francesco (Chinchino) Compagna, allievo di Croce, già giornalista di Nord e Sud e del Mondo di Pannunzio, repubblicano e ministro della Repubblica.

L'11 marzo 1980 Compagna, che qualche mese dopo avrebbe analizzato in maniera critica la ricostruzione del terremoto irpino, pubblicò un articolo sul Giorno di Milano. Titolo indicativo: "Ma i Borboni (sic!) no, non li rimpiango". L'occhiello già anticipava polemiche lette negli ultimi mesi: "Segni di una rinnovata e ambigua nostalgia".

Il ragionamento metteva insieme due eventi: la mostra sul '700 napoletano, in quei giorni inaugurata al museo di Capodimonte da Raffaello Causa, con lo sceneggiato televisivo. Compagna si diceva preoccupato che "i borbonici si approprino politicamente della mostra".

L'analisi successiva sembra anticipare, almeno di 30 anni, le tante diatribe scatenate dalle celebrazioni sui 150 anni di unità d'Italia. Scriveva Compagna: "C'è una serpeggiante nostalgia dei Borbone che si alimenta dalla dolorosa condizione della città e che si inserisce nel vuoto lasciato a Napoli, come anche altrove, dalle dissacrazioni sociali del Risorgimento, dalla schizzinosa rinuncia al Risorgimento come minimo comun denominatore della educazione nazionale".

Una presa di posizione decisa, che proseguiva con argomenti che riecheggiavano e riecheggiano ancora oggi contro chi cerca di capire a tutto tondo cosa accadde negli anni in cui l'Italia fu unita. Il raffronto dell'intellettuale e giornalista crociano fu tra l'oggi di allora e lo ieri borbonico: la Napoli di quel 1980 nascondeva "meno miserie di quante ne nascondesse la capitale borbonica".

Sarebbe stato tragico se non fosse stato così, 119 anni dopo. Il progresso e i tempi in evoluzione devono pur significare qualcosa. Ma Compagna era più indignato per lo sceneggiato ispirato ad Alianello, trasmesso alla Rai: come mai nessun giornale del nord ha reagito contro l'offeso sentimento risorgimentale? Come mai, invece, in quelli napoletani, tanta nostalgia borbonica? Quesiti giornalistici retorici, con risposta pronta.

Rileggere i punti, con cui Compagna spiegava la sua indignazione è illuminante: sono gli stessi delle indignazioni di oggi. E allora: Compagna si dissociava dai "chiari intendimenti dissacratori, estranei al pur partigiano Alianello, accompagnati da interpretazioni che offendono i miei sentimenti".
Un crociano, laico, con la verità certa in tasca.

E ancora, in polemica con la sinistra che allora governava Napoli, con l'illuminato sindaco Maurizio Valenzi: "C'è una responsabilità della cultura di sinistra nel revival borbonico di cui dicevo. Il processo al Risorgimento come fallita rivoluzione sociale produce la dissacrazione di Nino Bixio". La conseguenza è logica: editori di sinistra (Feltrinelli) a pubblicare Alianello e Molfese; intellettuali organici alla Rai; malumore classista dalla parte di Crocco e Ninco Nanco invece che di Bixio.

Compagna lettore di Croce,  un po' meno di Gramsci e Molfese, sarebbe morto due anni dopo quell'articolo. Chissà che polemiche avrebbe fatto con i neoborbonici, lui che sui garibaldini e piemontesi, scriveva: "noi che rileggiamo Croce non rifiutiamo il titolo di liberatori". Almeno polemiche coerenti: insieme con Bettino Craxi, Giovanni Spadolini (segretario nazionale del partito di Compagna) era il maggiore collezionista di cimeli e documenti garibaldini nell'Italia di quegli anni.
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