I danni alla fontana del Bernini a Roma, i nuovi barbari contro i nostri monumenti e le antiche leggi sul patrimonio archeologico a Napoli

Sabato 21 Febbraio 2015, 12:58
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I nuovi barbari sono arrivati vestiti da tifosi di calcio. I nuovi barbari hanno danneggiato in maniera profonda il capolavoro di Bernini in piazza di Spagna a Roma. Si piange ancora per i nostri monumenti, che non sappiamo difendere da chi non ne ha rispetto. Come quando lo scellerato direttore Massimo De Caro fece mercato di quasi 4000 volumi preziosi della biblioteca pubblica dei Girolamini di Napoli. L'indignazione non è mai troppa verso chi depreda, distrugge, calpesta la storia e la cultura.

Quando Raffaele De Cesare scrisse la sua "Fine del regno" delle Due Sicilie parlò anche della Girolamini. E ne diede le cifre di allora: 30mila volumi, più di 300 manoscritti con libri di Carlo Troja per altri 3602 volumi. Era un omaggio scritto al patrimonio storico e artistico pubblico, che sin dal 1854 era stato al centro di una legge nelle Due Sicilie.

Terra baciata dalla storia e dalla cultura, il Sud aveva negli scavi di Pompei il suo fiore all'occhiello. Resti e patrimonio archeologico, che Carlo III di Borbone volle fossero valorizzati con uno primo scavo a Ercolano nel 1738. Dieci anni dopo, il re dispose lo scavo a Pompei e poi, nel 1755, firmò due bandi per tutelare il patrimonio archeologico e artistico.

Di recente, è uscito un volumetto assai interessante, edito a Napoli da Aracne e scritto da Ivan Cuocolo: "Tutela dei beni culturali nel regno delle Due Sicilie". Una ricostruzione cronologica preziosa, utile a chi si occupa di beni archeologici e artistici. La prima legge organica di tutela di quel patrimonio fu del 16 settembre 1854, preceduta da altri provvedimenti e più editti. Ivan Cuocolo ricorda come la direzione della tutela dei beni trovati a Pompei fu affidata da Carlo III al pittore romano Camillo Paderni. Oggi si direbbe: un tecnico.

Nel decennio francese si proseguì nell'impegno di impedire che speculatori, ladri e accaparratori clandestini delle opere ritrovate negli scavi prosperassero. Ferdinando II costituì poi la figura di un ispettore che si occupava della conservazione del patrimonio artistico

In un'intervista al Mattino, il critico Philippe Daverio mi disse, con provocazione: "Ci vorrebbero di nuovo i Borbone per proteggere Pompei". Esagerazione, forse, da indignazione vera scattata dopo i crolli e le notizie preoccupate sugli Scavi.  Di certo, però, la tutela artistico-culturale ebbe particolare attenzione nelle Due Sicilie.

E scrive oggi Ivan Cuocolo: "Come analizzato, la nascita del regno d'Italia porterà ad un'involuzione significativa nella tutela dei beni culturali, soprattutto per le remore dell'allora classe dirigente". Troppo lungo analizzarne qui le ragioni. Basti solo ricordare che, per molti anni, chi trovava resti archeologici in un terreno di sua proprietà ne diventava legittimo possessore. E così molti ori preziosi di Boscoreale sono oggi al museo di New York, venduti dai privati che li trovarono nelle loro terre.

Quando Francesco II di Borbone partì da Napoli per Gaeta il 6 settembre 1860, nel suo proclama ricordò di voler salvare la città dalla guerra e ricordò anche "i monumenti, gli stabilimenti pubblici, le collezioni d'arte e tutto quello che forma il patrimonio di una civiltà e della sua grandezza, e che appartanendo alle generazioni future è superiore alle passioni di un tempo". Peccato che i tifosi olandesi si siano dimostrati estranei a queste idee e il loro rispetto per l'arte pari alla loro urina lasciata sulle strade del centro storico romano. L'Italia non merita la distruzione della sua storia e dei suoi tesori artistici, ma, forse, dovrebbe fare di più per difenderli.
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