Saviano, la scorta e il processo Cuocolo

Martedì 11 Novembre 2014, 17:06
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Difficile scrivere nella terra della mafia casertana, abituata ai silenzi, alle tacite e impaurite connivenze. Ma fin quando le notizie rimanevano relegate a un circuito provinciale, nelle pagine dei quotidiani locali o delle pagine casertane de Il Mattino, l'odio per i giornalisti poteva limitarsi alle dichiarazioni. Bastavano qualche minaccia, intimidazioni, telefonate aggressive fatte arrivare nelle redazioni. Magari qualche lettera anonima o proteste manifestate durante i processi. Poi, di colpo, la mafia casertana smise di essere considerata un fenomeno locale. Non lo era mai stato, ma scriverlo sui giornali non era bastato a farlo riconoscere da tutti. Le cronache giudiziarie restavano pane per pochi lettori attenti. Se poi quelle cronache parlavano di criminalità organizzata, venivano confuse con le aride e ripetitive notizie di "nera". Guardate con fastidio e sistematicamente evitate da molti giovani. Distrazione, riflettori assenti. Si era in una provincia lontana dai circuiti di informazione nazionale: quella di Caserta. Poi, all'improvviso, il vento cambiò. Arrivò "Gomorra".

Lo scrivevo sei anni fa, lo scrivevo nel libro "L'Impero dei Casalesi" pubblicato da Rizzoli. Ricostruivo l'importanza e il ruolo del testo di Roberto Saviano, che aveva sdoganato le vicende di camorra dalle pagine dei giornali. E ricostruivo, naturalmente, tutti i passaggi che portarono alla decisione del Comitato per la sicurezza di mettere sotto scorta il giovane scrittore. Senza esagerazioni, senza mistificazioni, o alterazioni della verità.

Sei anni dopo, anche la terza vicenda giudiziaria sulle minacce a Saviano ha avuto il primo esito: assolti i boss Antonio Iovine e Francesco Bidognetti, condannato l'avvocato Michele Santonastaso che preparò e lesse l'istanza di legittima suspicione con pesanti apprezzamenti nei confronti di Rosaria Capacchione, Saviano e dei magistrati Federico Cafiero de Raho e Raffaele Cantone.

A caldo, visibilmente contrariato, Roberto ha parlato di "guappi di cartone che si nascondono dietro l'avvocato". Una contraddizione con quanto anche da lui scritto e sostenuto sulla pericolosità da boss mafiosi di Iovine e Bidognetti. Ora la sentenza dice che i due boss non minacciarono, non ne avevano alcuna intenzione. A conferma di quanto dichiarato anche da Iovine, nei suoi verbali da pentito dove afferma: "Non ho mai inteso che nel documento dell'avvocato ci fossero minacce".

Tre anni fa, il gip romano Donatella Pavone archiviò il fascicolo scaturito dalle dichiarazioni di tre detenuti su un attentato che il boss di Mondragone, Augusto La Torre, avrebbe voluto preparare contro il magistrato Raffaele Cantone e contro lo stesso Saviano. Lunghi accertamenti, verifiche, interrogatori anche a Cantone. Alla fine, scriveva il gip il 12 febbraio 2011 nella sua ordinanza di archiviazione: "Nessuna fattispecie penale risulta integrata dagli elementi emergenti nell'incarto processuale".

Ed è proprio questo, forse, il nocciolo della questione. Le scorte, così come i sequestri preventivi di beni mafiosi, si dispongono sulla base non di prove accertate, ma di probabilità, clima, vicende che inducono sospetti sui pericoli legati ad un'attività che espone. La decisione del comitato per la sicurezza è provvedimento amministrativo. Cercare una conferma penale, per ricavarne un maggiore sigillo alla giustificazione della scorta, è probabilmente operazione difficile.

Per Saviano, ad esempio, la scorta fu disposta dopo le sue dichiarazioni a Casal di Principe nel settembre 2006. "Gomorra" era uscito da cinque mesi, quella ne era una presentazione. La scorta, dunque, fu conseguente all'esposizione pubblica con le coraggiose parole pronunciate in terra di Casalesi. Ma gli accertamenti successivi su possibili concrete minacce, affidati al pm Antonello Ardituro, non approdarono a nulla.

Poi il fascicolo romano e ora il processo napoletano, scaturito dall'iniziativa di un avvocato, imputato in altro dibattimento per associazione camorristica: chiedeva il trasferimento di sede dell'appello di Spartacus per un presunto clima di prevenzione e ostilità nei confronti dei suoi assistiti (i boss Iovine e Bidognetti) che non avrebbe garantito serenità di giudizio.

Nulla di nuovo, nella storia della camorra. Il processo Cuocolo, il primo grande evento giudiziario nella lotta contro le organizzazioni criminali campane, fu spostato da Napoli per motivi di sicurezza. Si scelse Viterbo, per garantire serenità al dibattimento che iniziò l'11 marzo del 1911. Ci vollero ben 150 carabinieri a piedi e a cavallo per scortare i quattro cellulari con i 32 detenuti all'alba del 7 gennaio 1911.

Quindi, l'eventuale spostamento di un processo di camorra in altra regione ha un precedente famoso. Il problema, in quel 13 marzo 2008, furono i tempi e i modi di un'istanza giustificata dal codice di procedura penale. L'avvocato scelse di leggerla, quando bastava depositarla, forse per ottenere maggiore clamore. Oltrepassò i limiti consentiti dal codice, parlando di "giornalisti prezzolati al servizio delle procure". In quel modo, esponendo Rosaria Capacchione e Saviano oltre la loro attività.

Dimostrare che dietro quelle parole ci fossero i boss è, in materia penale, difficile. Come difficile è provare l'esistenza di concrete minacce. Altro è, invece, intercettare un dialogo su un attentato da preparare, come è successo per Lirio Abbate, impegnato cronista dell'Espresso e conoscitore di mafia siciliana. Insomma, la scelta di disporre una scorta é materia amministrativa più che penale. Da affidare alla responsabilità del prefetto e degli esponenti delle forze dell'ordine che devono esprimere pareri e valutazioni.

Dico, insomma, che è inutile affidarsi, anche su questo, al sigillo di sentenze penali, come se assicurassero maggiori garanzie di forza e valore a ogni cosa. La politica non si muove se non ci sono sentenze, a giustificare scelte delicate. Anche la vicenda Saviano dimostra che, per dare credibilità ai pericoli denunciati e alla scorta disposta ormai da otto anni, molti attendevano una sentenza. Certo, se i giudici avessero scritto che i boss avevano espresso l'intenzione di minacciare utilizzando l'istanza affidata all'avvocato sarebbe stata conclusione clamorosa.

Ma, a mio parere, con la sentenza che lo nega, nulla cambia. Esporre e sovraesporre chiunque, in un lavoro delicato e difficile, è sempre rischioso. Può esserci in agguato sempre un pazzo, un esaltato, più "realista del re". E, in un ambiente poco attrezzato culturalmente (come quello in cui sguazza il cancro camorra) il pericolo è concreto. Ma deve valutarlo un atto amministrativo, senza attendere sempre una sentenza penale.
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