Scozia, Catalogna, Confederati e i nostri difficili conti con la storia

Mercoledì 17 Settembre 2014, 18:12
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Il conto alla rovescia è finito. I cittadini scozzesi hanno votato per il referendum sull'indipendenza della Scozia. Ha vinto il no, per una manciata di voti (400mila), dopo giorni e giorni di acceso scontro tra catastrofisti, economisti, europeisti, analisti, polemisti scatenati. Si è letto tutto e il contrario di tutto.

Si è parlato di interessi economici dietro l'ideale indipendentista, ricordando che la Scozia detiene il 90 per cento del petrolio nel mare del Nord. C'è chi ha citato le cifre del Pil procapite: 48167 quello scozzese; 48830 quello del Regno unito. Poi, alcuni giornali avevano avvertito: si ritornerà al Medioevo, se ogni movimento indipendentista europeo spingerà per chiedere l'autonomia.

Chi leggeva fuori dalla mischia, ha sorriso. Il premier inglese David Cameron alla vigilia aveva promesso: "Se restiamo insieme, la Scozia godrà di autonomia senza precedenti". Gli aveva replicato Alex Salmond primo ministro scozzese: "Abbiamo l'1 per cento della popolazione del Regno, con il 60 per cento di petrolio e il 20 per cento della produzione nel commercio del pesce. La nazione di Adam Smith può diventare ancora più ricca da sola".

Punti di vista, con i parlamentari dell'Ue, in prima fila l'italiano Gianni Pittella, che avevano ammonito: "Ci vorranno anni prima che la Scozia indipendente possa entrare nell'Ue". Di fatto, anche se avessero vinto i sì, ci sarebbero voluti due anni prima che l'indipendenza fosse diventata esecutiva dopo 307 anni di unione.

Qualunque siano ancora le proprie convinzioni, su una nazione che comunque possiede tanto spirito d'indipendenza da aver scelto di non adottare l'euro attraverso un referendum, io penso che si debba applaudire alla provocazione pacifica di un referendum, in Italia impossibile perché l'articolo 5 della nostra Costituzione rigida (Italia una e indivisibile) lo vieta. Il referendum scozzese, al di là delle implicazioni giuridiche, a mio parere è stato comunque un esempio di come in altri Paesi si affronti con serenità la propria storia. 

In Gran Bretagna, la Scozia, il Galles, l'Irlanda hanno propria bandiera, propria nazionale di calcio, propri rappresentanti politici. Nessuno si scandalizza se gli scozzesi non si fanno chiamare inglesi, se raccontano la loro storia, se tifano per i loro calciatori. Come mai?

In Catalogna, il tifo per il Barcellona diventa pretesto identitario. Negli Stati Uniti, uno dei due momenti storici fondanti della nazione è la guerra di secessione. Ebbene, nessuno si scandalizza se al Sud hanno musei della Confederazione (molto bello quello a New Orleans), o ci sono, così come negli Stati del Nord, associazioni in ricordo di reggimenti sudisti. Nessuno, ancora, si scandalizza se, sugli edifici pubblici, sventolano bandiere confederate insieme con quella americana. 

La verità è che negli Stati Uniti riescono a convivere con la loro storia. Anche se si tratta di storia sofferta e di divisione della nazione. Rispetto per le proprie vicende, per le proprie diversità, cementando l'unione federale. Senza dover dire per forza che, in quel periodo della storia, ci furono buoni e cattivi. Dietro l'idea-forza della lotta alla schiavitù, si in quella guerra civile si scontrarono economie e interessi commerciali in contrasto tra Nord e Sud.

Questo significa approccio sereno, senza timore di ripercussioni sul presente, con la storia. E possono starci anche romanzi e film come "Via col vento", che raccontano la storia sofferta dalla parte dei vinti della guerra di secessione.

E da noi? Apriti cielo. Se si tenta con serenità di raccontare cosa avvenne nel Sud nel periodo pre e post unificazione si scatena il putiferio. E le accuse: borbonici, secessionisti, suddisti (con due d), revanchisti, reazionari, gente di destra! Dimenticando gli insegnamenti e le ricostruzioni di Gramsci, Molfese e tanti altri che di destra proprio non si possono definire. 

Chi ha paura di raccontare attraverso documenti la vera storia del Sud inserita nella storia nazionale? Perchè abbiamo per forza bisogno di dare un giudizio etico sugli avvenimenti, con una netta divisione tra buoni e cattivi, per poterci consolare? La successione degli eventi storici ha una sua logica hegeliana. Gli eventi che la determinano sono diversi, non semplificabili in una logica etica.

E invece, cosa accade? Che dobbiamo per forza ripetere, senza cercare di capire, che il Sud era arretrato ed è stato civilizzato da un Nord migliore, che al Sud c'erano i peggiori tiranni contrapposti a democratica gente del Nord, che il Sud era dominato da stranieri contrapposti al Nord italianissimo, che eravamo straccioni e siamo progrediti con l'aiuto dell'unificazione pilotata dal Nord.

Semplificazioni senza senso, che anche molti studi universitari hanno smentito. Specie negli ultimi anni. E specie grazie a docenti di economia. Forse, la verità è una sola: in Italia non sappiamo fare i conti con la storia. La nostra storia nazionale. Ne abbiamo paura, nel timore di mettere in discussione qualche attuale rendita di posizione. Figuriamoci se a Napoli, ad esempio, si potrebbe mai realizzare un museo delle Due Sicilie come quello della Confederazione a New Orleans. Si scatenerebbero polemiche e accuse su qualche giornale. Me le immagino: neoborbonici e arretrati (sic!).
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