Anatomia urbana: il senso di Napoli

Foto di Sergio Siano
Foto di Sergio Siano
Mercoledì 30 Settembre 2015, 10:25 - Ultimo agg. 18 Giugno, 18:53
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Napoli ha un ventre, uno stomaco, un cuore, un cervello. Tutto in disordine, tutto apparentemente al posto sbagliato. Sopra questa anatomia sballata, a ricoprire come un velo c’è la pelle di Napoli, lo schermo dove tutto il bene e tutto il male scivolano e si rifletteno, come uno specchio deformante. Napoli vanta mille colori, ma dopo duemila e cinquecento anni resistono solo il grigio sporco delle antiche pietre, l'oro appannato del tufo che l’ha innalzata e l’altro oro, quello della pazienza che spinge a rialzarsi dopo ogni caduta. Napoli cade e si rialza, e comincia da capo, pazientemente. È il suo eterno ritorno, più vichiano che nicciano. Napoli ha sempre preferito l’eterno ritorno all’eterno riposo. Non c’è tempo per fermarsi e non ne vale la pena.

Per questo sotto la pelle di Napoli tutto si crea e nulla si distrugge. La città accumula. Accumula il bene e il male, spesso senza distinguerlo. Una dannazione. Bene e male, a scombinare ancor di più un’anatomia duplice, reale e riflessa. Perché Napoli è bifronte, come Giano e da Giano discende il nome del suo patrono Gennaro. Sotto la pelle di Napoli c’è il sangue che si scioglie e si coagula in un’ampolla e nelle strade, si spande sui bàsoli prima ardenti e poi gelidi, dopo le morti di camorra o di follia (che spesso si confondono o comunque si sommano). Il sangue cola dalle carni appese nelle vetrine delle chianche che sopravvivono nei quartieri popolari accanto ai negozi di alta tecnologia. Il sangue di Napoli si mescola con la pelle, la impregna e la fa sua. La pelle insanguinata è la faccia che Napoli, come una maschera della commedia dell’arte in salsa splatter, è costretta a mostrare. Senza pudore e senza allegria. Il sangue, sotto la pelle abbronzata o livida, è la croce che ogni napoletano deve portare e che solo un santo, martire importato, può trasformare in prodigio, in miracolo. 

Il ventre, lo stomaco, il cuore, il cervello e, naturalmente, il sangue e la pelle di Napoli li si può scoprire entrando nei palazzi secolari. Ogni palazzo è una piccola Napoli. La contiene come una palla di vetro, ne è sineddoche e folklore, basta farsi accogliere in un basso, bussate e vi sarà aperto, in un fondaco, in fondo a un vicolo cieco dove la luce abbaglia e oscura, basta possedere occhi addestrati per vederla, in un cortile dove le voci hanno altre tonalità, diventano sussurro e grida, lamento e poesia. Dietro ogni portone, oltre tutte le inferriate, oltre le ringhiere, Napoli è senza pelle, non solo nuda, ma scuoiata, Marsia tratto dalla vagina sua, rinata e sanguinante, ancora sanguinante, sempre sanguinante.

Bisogna imparare a vederla questa città che tutti si illudono di conoscere, ma poco conoscono, quasi nessuno interroga e nessuna canzone riesce più a mettere in nota o in versi. Napoli è davvero la voce delle creature, ma pure il cantico delle creature, fratello sole che non entri in questi vicoli, sorella acqua che non disseti queste anime. Bussi, entri e Napoli sorride, ti offre il caffè, ti concede uno sberleffo e una lacrima. E gode a spogliarsi, a spellarsi, a pugnalarsi. Ti vieta di girarti dall’altra parte. Guarda, guarda, ti incalza, come una Maddalena che non conosce redenzione, guarda e ricordati che c’è più male nei tuoi occhi che nella mia faccia sporca, c’è più malizia nelle tue parole che nel mio pensiero. Napoli, nelle case e nei palazzi, si denuda e ti denuda. E, nonostante tutto, resta pura, perché lo sporco l’ha lanciato fuori, l’ha buttato per strada, nella casa di tutti e di nessuno. Per penetrare il ventre capiente di una metropoli mai esausta occorre trasformarsi in un napoletano che cammina. I piedi sono sempre i migliori occhi per chi vuol conoscere e capire.

Andare, vedere, raccontare. Allora, ti si fanno incontro tutti gli azzurri del mondo, le infinite sfumature del cielo e del mare che dalla profondità di un orizzonte indistinto arrivano ad abbracciare le colline, ma che non riescono a colorare le esistenze di tutti. C’è una Napoli che si nasconde e c’è una Napoli che vorrebbe mostrarsi e non ce la fa. La pelle che la copre si è ispessita, come un mantello di cuoio che genera tenebra e morsi di dolore. L’azzurro non bagna Napoli, sebbene a tratti la esalti come una teofania manierista, allenta le tensioni, ma non guarisce. Sotto questa coltre di polvere invisibile, il napoletano che cammina, oggi, nel terzo (ma non terso) millennio, scopre dettagli improvvisamente braccati dalla luce come in una tela ardente di Caravaggio: il tufo prosciugato dal sole e dal sale; la fatica di un geranio che si innalza oltre le grate imprigionanti di un balcone rugginoso; le braccia alzate di anime purganti racchiuse in un tabernacolo di fiamme immobili, illuminate da una lampadina opaca; le cicatrici sulla pelle di un migrante cingalese; il pugnale e la rosa tatuati sul bicipite di un motociclista senza casco; i panni stesi da un palazzo all’altro che sventolano sulla testa, bassi e neri come pipistrelli di stoffa; il profumo stordente della pizza girata e rigirata nell’olio bollente che si mescola con zaffate di curry emanate da altre friggitorie; una lancia senza più onde da solcare, ferma in un cortile come un cetaceo arenato, orca rossa e verde con il nome esotico di una donna.

L'anatomia sconnessa di Napoli genera crisi epilettiche in una carne che appare, ma è un’illusione ottica e metafisica (esageriamo: ontologica), immobile. Sembra. Invece è frenesia che nessuna apoplessia meridiana può fermare, nessuna medicina può guarire. È città singolare, ripetono la vulgate popolari e colte per indicarne l’unicità. È, invece, città plurale, moltiplicata per se stessa con risultati incerti. Da decenni siamo ben oltre le due città contrapposte di Domenico Rea, siamo alle città sommate e incastrate come un Tetris che non trova soluzioni. Periferia in periferia e periferia in centro, e ogni rione con le proprie ferite e le proprie bellezze, assediate dalla camorra e dalla zella, quell’inguaribile patologia delle coscienze e della vita sociale che produce e accumula tigna, sporcizia, illegalità, malaffare in ogni angolo, segreto o manifesto, dell’animo e delle strade. 

Se vi affacciate da un’altura qualsiasi (il belvedere di San Martino e la vetta di Castel Sant’Elmo sono, però, il punto d’osservazione privilegiato), con il primo colpo d’occhio, ammirate il presepe. Non sentite il rumore, lo strepitìo continuo, il ronzio di api, la foresta che cresce disordinatamente, ma con una logica sua, interna. È solo un labirinto di tetti e terrazzi, di strade che si restringono e si allargano, che scompaiono e riemergono danzando attorno alle cento cupole, slanciate come mammelle verso il cielo, dettagli materni ed erotici, nel contempo. Napoli è ingannatrice. Può diventare una chimera. Non per niente, fu fondata dove stracquò, spiaggiò, la sirena Partenope. Seduce e costringe a chiudere tra la parentesi la zella eterna. Mettete una giornata di sole caldo, ma ancora carezzevole, quando il mese non è crudele, mettete il mare lavorato dal venticello come un ricamo, mettete una pizza e pure l’indispensabile vino bianco. Mettete tutto questo è capirete come il bicchiere mezzo pieno può sembrare persino traboccante.

È Napoli che aspetta il ciclico maggio che ritorna con l’amore, come in una canzone che stordisce per una melodia che ci ha allattati. Il paradiso appare vuoto dai diavoli (si è tutti angeli per qualche ora) sospeso come in una ballata di Coleridge: ora davvero immobile, come nave dipinta su oceano dipinto. È la cartolina che vorremmo spedirci ogni giorno a casa nostra o in giro per il mondo. Tutto questo si materializza nella mente, quando lo sguardo è abbagliato e ubriaco. Poi il bicchiere, come una clessidra che si capovolge, diventa mezzo vuoto o vuoto del tutto. Per il principe Myskin, nell’«Idiota» di Dostoevskij, la bellezza salverà il mondo. La sua bellezza immanente, quella che il mondo porta in sé, ma forse anche la bellezza che gli uomini sanno e sapranno creare. La prima? La seconda? Entrambe? Perché, senza fare i sofisti, sono poi la stessa cosa. Così piace pensare che la bellezza salverà Napoli. Quella che sapremo conservare, ma soprattutto quella che sapremo creare. Sopra e sotto la pelle.
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