Campania, la campagna elettorale più brutta

Domenica 10 Maggio 2015, 16:24
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Sciacallo, capo dei banditi, Pinocchio. E siamo solo all’inizio. Come arriveremo al 31 maggio, all’apertura dei seggi delle Regionali più sgangherate degli ultimi anni? Stefano Caldoro e Vincenzo De Luca, i candidati che si contendono la vittoria, hanno alzato il tiro, personalizzando una battaglia che avrebbe bisogno di contenuti, di programmi, di proposte in una Campania che annaspa. Invece, tocca assistere a sberleffi reciproci di maschere della Commedia dell’Arte. Uno spettacolo che purtroppo non fa ridere nessuno, ma fa sorridere il terzo incomodo: quei grillini che i sondaggi danno sul podio se non primi. Il Movimento 5 Stelle non è solo figlio di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, che marciano in Umbria per una battaglia massimalista per anni bandiera della sinistra, ma è stato partorito pure dai conflitti inconcludenti della politica, soprattutto da una voglia di pulizia che si è trasformata nel moralismo diffuso che fa scambiare le elezioni per lezioni di etica, dove non conta vincere, ma conquistare patenti di verginità. Purtroppo la politica campana non riesce a sottrarsi all’inquinamento di una società bacata dalla criminalità. Dovrebbe farlo, avrebbe dovuto già farlo da decenni. La malapianta andrebbe sradicata sia dalle liste del centrosinistra che da quelle del centrodestra. L’unica speranza, a giochi ormai fatti, è nell’autorevolezza e nella forza del vincitore che dovrà neutralizzare i virus che hanno iniettato nelle proprie liste con gli anticorpi della buona politica. Ma il nodo sta proprio nel sistema elettorale perché, come ricorda nell’intervista al «Mattino» di oggi il presidente dell’Anticorruzione, Raffaele Cantone, «il voto per le Regioni e i Comuni favorisce le ammucchiate e quindi il malaffare. Per vincere si mette insieme qualsiasi armata Brancaleone». Se il gioco è questo, l’azzardo diventa legale e le fiches si raccattano su ogni tavolo. I grillini, comunque, sono anche figli della crisi del Partito democratico, e prima ancora della sinistra tout court. La sinistra per decenni ha alimentato la società con il moralismo, sbandierando una diversità spesso solo ostentata, ma non praticata. Purtroppo, nelle campagne elettorali si devono raccogliere voti e non andare in Paradiso. Il fine può giustificare i mezzi, è vero, ma, più alto è il fine più alti devono essere i mezzi. E gli uomini. Paradossalmente, però, nel carosello della accuse incrociate, il mito della purezza s’è trasformato in una tossina giustizialista, un’ideologia quasi teologica, un feticcio svuotato, che sta uccidendo la stessa sinistra che l’ha prodotta. Da tempo in Italia e in Campania la politica viene decisa nelle aule giudiziarie. Corsi, ricorsi e leader fuoricorso. Il Pd in questi giorni sta subendo un attacco concentrico. C’è stato il duro anatema di Roberto Saviano, che, al netto dell’irrefrenabile voglia di visibilità dello scrittore, ha toccato un nervo scoperto della sinistra e ha scoperto l’acqua bollente, perché ha scottato tutti e di brutto. La sconfitta di De Luca e del Pd non sembra solo il legittimo obiettivo dei suoi avversari, ma anche dello stesso Pd. E non è il frutto avvelenato delle primarie o dell’antipatia per un leader atipico e sprezzante come l’ex-sindaco di Salerno. È la natura, il carattere dello scorpione che punge sempre la rana che lo trasporta attraverso il fiume. Quando sono gli stessi segretari del Pd, regionale e provinciale, Assunta Tartaglione e Venanzio Carpentieri, a puntare il dito contro le liste che appoggiano De Luca (di grazia, ma prima, quando le liste passavano, a quale happy hour eravate a brindare?), quando il nemico marcia alla tua testa, allora i democrat cedono alla più disastrosa crisi massimalista e sfascista. Il Pd campano questo è. La fine del bassolinismo è riuscita a produrre solo bande senza capi e capi senza bande. Nel vuoto delle idee si punta a chi è più a sinistra: un gioco sinistro e suicida. Qualcuno dovrebbe spiegarlo ai post-comunisti che l’estremismo è la malattia infantile del comunismo. Lo diceva Lenin, non Renzi. Così si sono avvitati in una spirale regressiva, la decrescita infelice. È un partito disarmato, che nessuno difende, neanche da se stesso. Finora, a parte qualche abbraccio frettoloso, nessun leader nazionale, ma pure locale, si è alzato e ha rivendicato le scelte del Pd. Mandano all’attacco i reparti di complemento, fanno scendere in campo le riserve come quando si vuol perdere. Solo qualche timido cinguettio su Twitter o stupori postumi e posticci affidati a Facebook. Una frase, un rigo appena, come se De Luca fosse un imbarazzante figlio di nessuno con i suoi candidati fiancheggiatori casalesi o mussoliniani. La strategia autodistruttiva sta raggiungendo il proprio obiettivo, ce la faranno, vedrete, a vincere nel loro gioco preferito: il tressette a perdere. In questo fosco contesto l’unico modello narrativo prevalente è il conflitto, la tenzone a colpi di insulti. Non si sottrae lo stesso Caldoro, al solito compassato, ma che, consigliato da aggressivi spin doctor, ha messo da parte l’annunciato aplomb istituzionale di governatore in carica per accedere a un lessico da trivio. Davvero i campani non meritano tutto questo, non meritano una campagna elettorale che spinge ad andare al mare, ad astenersi e consolarsi con la battuta finale del sergente Abatantuono nel «Mediterraneo» di Salvatores: «Non ci hanno lasciato cambiare niente. E allora? E allora gli ho detto: avete vinto voi, ma almeno non riuscirete a considerarmi vostro complice».
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