Gli impresentabili a posteriori del Pd

Venerdì 8 Maggio 2015, 15:34
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Li ricordate i Rokes? Cantavano «bisogna saper perdere, non sempre si può vincere». Il Pd campano li ha presi in parola, ora e comunque. Son giovani, ma hanno studiato e assimilato l’epoca del beat. Solo che gli andrebbe spiegato che bisogna anche saper vincere. E per come s’è messa la campagna elettorale, i dem stanno facendo di tutto per perdere, mentre l’avversario Caldoro si frega le mani. È la sindrome gruppettara della sinistra italiana che la spinge a dividersi su tutto. Se si riuniscono in quattro fondano otto partiti. Ora che di mezzo c’è pure il centro, la maionese è completamente impazzita. Così, mentre la sfida per Palazzo Santa Lucia s’è arroventata, il Partito democratico è sempre più la patria delle contraddizioni irrisolte. In queste ore, poi, si sta toccando l’apoteosi. Il segretario provinciale, Venanzio Carpentieri, presentando la lista Pd di Vincenzo De Luca, ha sparato ad alzo zero contro il proprio candidato che ha riempito le liste piene di «impresentabili». Un magnifico harakiri, complimenti. «Non abbiamo condiviso le scelte degli alleati rispetto alle quali sono stato molto critico, così come la segretaria regionale Assunta Tartaglione» ha proclamato.  Non era una puntata di «Scherzi a parte», purtroppo. Ma questo è il Partito Democratico della Campania. Carpentieri e la Tartaglione, in questi anni di propagandato, ma mai praticato, renzismo, avrebbero dovuto costruire una dialettica civile nella scelta del candidato alla presidenza della Regione. Invece, si sono dimostrati degli apprendisti stregoni e si sono ritrovati a subire De Luca che ha vinto le primarie contro gran parte della dirigenza del proprio partito. Che si è dimostrata inadeguata non solo rispetto alle stesse primarie, ma anche nel rapporto con De Luca, nel lavoro nei circoli e nelle candidature alle Comunali dove non sono mancate le guerre intestine e i maldipancia. E così l’ex-sindaco di Salerno, com’è nel suo stile e nel suo carattere, li ha messi ko. Ha fatto tutto da solo, non solo ha sottratto Ciriaco De Mita alle spire avvolgenti del centrodestra (scelta in linea con la politica nazionale, ma discutibile nel metodo carbonaro con il quale è stata condotta), ma, per paura di perdere, si è prodotto in una pesca a strascico trattenendo nella rete ogni tipo di fauna ittica: cosentiniani, mussoliniani e mazzamma sfusa. Roba che è rimasta sullo stomaco a Carpentieri e alla Tartaglione, le due Alici nel Paese delle Meraviglie.  Ma ormai la pesca affatto miracolosa è stata fatta. E le elezioni sono elezioni, machiavelliche, ciniche, spietate. È politica, conta chi vince. Il rischio adesso è che, vittima della traduzione tafazzista, il centrosinistra sopravvaluti il peso degli «impresentabili», gentarella che mira a uno strapuntino, a uno stipendio a tempo determinato o a uno straccio di visibilità warholiana: un quarto d’ora e via, sciò. È una fauna che andava tenuta a distanza, non c’è dubbio. Ma che il colpo dello starter è stato sparato, la corsa è cominciata, e il Pd e gli elettori hanno una sola garanzia per una pulizia a posteriori: l’autorevolezza e la personalità che non mancano al candidato del centrosinistra e che da vincitore dovrà marginalizzerà le forze oscure sparse in entrambi gli schieramenti principali. C’è poco da stupirsi: è il solito vizio assurdo, la passione abbagliante della sconfitta, che spinge la dirigenza del Pd a rimestare pervicacemente nel torbido per pulirsi la coscienza con campagne moralistiche fuori tempo massimo. È una tara genetica che impedisce di capire che bisogna saper vincere, non sempre si può perdere.
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