Notte e tesori dell'arte in cerca di un'identità

Lunedì 15 Dicembre 2014, 12:36
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Napoli ha un’identità che basta a se stessa. Anzi, paradossalmente, ne ha pure troppa di identità. Come al solito disordinata, sotto utilizzata, sporcata dalla denigrazione e dall’autodenigrazione. Abbiamo pure (non si sa ancora per quanto) un’assessora all’Identità, con la valigia pronta, Monia Aliberti, perché non servirebbe più alle strategie del sindaco Luigi de Magistris, ma la cui presenza si farà fatica a ricordare. Gli assessori cambiano, l’identità resta, però. L’ha confermato la Notte dell’Arte della seconda Municipalità, area tra le più vaste della città, che comprende buona parte del Centro Antico (il Decumani, per intenderci) e dei Quartieri Spagnoli. Centomila persone si sono riunite per godersi un dicembre unico, l’aria di un Natale che a Napoli e più Natale che altrove, il concerto rap a piazza Dante e altra musica sparsa tra vicoli e slarghi. Non sono mancate le code per il Cristo Velato (e ci mancherebbe) e per altri tesori o per partecipare alla processione immobile tra le bancarelle dei maestri presepisti di San Gregorio Armeno. Era una folla che riempiva il cuore, ma lasciava vuoti gran parte dei negozi. Spopolavano solo gli spacciatori di trigliceridi sotto forma di cuoppo di patatine e affini. Un euro, ti passa la fame e sei in sintonia con la moda dello street food. Sciamavano i turisti, allegri e tanti, sfrenati produttori di selfie, che stanno facendo dimenticare le stagioni più amare della cronaca recente. Napoletani pure, tantissimi che danno un senso, ottant’anni dopo, alla considerazione di Walter Benjamin (non ci ha lasciato in eredità solo la città porosa): «I napoletani non riescono a concepire la vita se non insieme a una folla brulicante». Tutto questo bendidio rischia, però, di essere fine a se stesso, di andare sprecato, di lasciare a terra meno di quanto prometta, perché ancora non fa sistema. Nella Notte dell’Arte troppe vacche sono nere. Capodimonte fatica a trovare il posto che merita nell’empireo delle pinacoteche internazionali. Irraggiungibile. La prima del «Trovatore» al San Carlo ha conquistato solo un glamour mondano di bassa intensità, adeguandosi a una tendenza in corso da tempo. Piazza del Plebiscito è spenta come un presepe addobbato con lampadine fulminate. Tutt’attorno impalcature: il Palazzo Reale, San Francesco di Paola, la Prefettura, la Galleria, lo stesso San Carlo e persino la fontana del Carciofo al centro di piazza Trieste e Trento. Cantieri programmati in tempi diversi, ma che hanno creato un ingorgo edile tanto da fare immaginare, involontariamente, una grande installazione di Christo, l’artista della land art, realizzata a sua insaputa, ultimo ruggito della stagione inaugurata dalla Montagna di Sale di Mimmo Paladino. Lo spettacolo che Napoli sa offrire da sola, persino senza il belletto dei grandi eventi, altrove sarebbe sufficiente per viverci di rendita tutto l’anno. È il fascino dell’arte, della storia, della natura e dei napoletani, anche quando a torto sono bollati come diabolici abitanti di un paradiso. Un paradiso, sia detto una volta per tutte, che i napoletani hanno costruito con i palazzi, le chiese, le piazze, le taverne e il contorno misto. Perché Napoli non è solo paesaggio, semmai è paesaggio costruito (e talvolta devastato) dall’uomo. Nel passato weekend la carica dei centomila ha cancellato con la sua stessa presenza la paura di un pomeriggio di fuoco, della sparatoria che aveva fatto temere la desertificazione. Invece, si è dimostrato che la città è di chi se la prende, con la forza della propria presenza, non necessariamente con la violenza della armi. Ma quante ricchezze sono celate in scrigni sigillati o lasciati a rovinarsi nel degrado, un giorno dopo l’altro, un vandalismo dopo l’altro, un cedimento dopo l’altro? Basta passeggiare per via dei Tribunali o per la stessa Spaccanapoli: una teoria di edifici storici monumentali, conventi che sposano il gotico con il barocco, obelischi che si fanno spazio tra i tetti. Un patrimonio sotto utilizzato. L’elenco dell’arte sotto chiave o nascosta (per insipienza, cattiva volontà, groviglio di competenze e incompetenze) sarebbe lunghissimo. L’unica evidenza è che tutto viene violentato dai ricami orridi degli spray, dagli abusi piccoli e grandi, da insegne oltre qualsiasi decenza, senza che le soprintendenze (ce ne sono almeno due che vantano competenze sul Centro Antico) abbiano un sussulto che vada oltre la segnalazione tardiva, destinata a perdersi negli incartamenti. Il protocollo è a posto? Possiamo riposarci. È vero, anche questo disordine è uno degli atout di Napoli. È l’anima ridotta a luogo comune. Vendibile pure nei pacchetti turistici. Vedi Napoli e poi sputtanala. In tanti di questa inestirpabile identità succedanea da funneco verde si innamorano. Tanto mica se la devono sorbire una vita intera. Un weekend (al massimo una settimana) e via. I cocci sono di chi resta. È identità che grava come un macigno soffocante sul futuro. E per sopramercato, il sabato sera (ma ogni sera è la stessa sera), appena calano le saracinesche dei negozi, tocca fare lo slalom tra i cestini tracimanti (eppure l’Asìa ne ha triplicato il numero), le campane per la differenziata che non fanno la differenza, le scatole di cartone ammucchiate in modo scomposto.  Per Napoli non serve immaginare nessuna immagine. Ne abbiamo fin troppe, contraddittorie, che nella contraddizione possono trovare nuova linfa o l’eterno tuosseco. Scopriamo, invece, l’autosufficienza di questo palinsesto di identità quando i napoletani, insieme ai forestieri, si riprendono la vita, la terra, la luna e l’abbondanza, come gli zingari felici della canzone. Quando per tutti basta un concerto di Clementino, ma pure meno, quattro smorfie di un artista di strada, di un mimo con la faccia lacrimevole, o il tam tam di un gruppo di africani vestiti da Babbo Natale, deve scattare un segnale per non disperdere un patrimonio di vita sociale, un bene comune, uguale, se non maggiore di altri. Perché non c’è tempo, non c’è tempo per questo mare infinito di gente.
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