Pomodoro, la Cina è vicina? No: la Cina siamo noi

Giovedì 15 Ottobre 2015, 16:13
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Il pomodoro e la mozzarella sono il simbolo della Campania nel bene e nel male. Due prodotti identitari che da decenni vivono la stessa dinamica, croce e delizia per gli appassionati. Entrambi sono tutelati da marchi europei, per la precisione l’oro rosso ne vanta due, il Piennolo e il San Marzano. Entrambi sono il pungiball preferito delle trasmissioni in cerca di audience. Il motivo di questa realtà mediatica (ma anche giudiziaria vista l’enorme mole di processi per truffa a carico dei trasformatori negli ultimi trent’anni) è nella natura stessa di questi due prodotti: si tratta di cibo artigianale che, prodotto su larga scala, rende più dei diamanti. Il gioco degli industriali poco seri è molto semplice: sfruttare la reputazione del prodotto accumulata nel passato per guadagnare il più possibile nel minor tempo possibile. Ecco allora le cagliate di latte dalla Germania e la storia, denunciata di recente dal New York Times e ripresa da Le Iene, del concentrato cinese che diventa Made in Italy. Certo, la trasmissione lascia intendere che la cosa riguardi anche i pelati e le conserve in generale, ma in questo caso le precisazioni e le minacce di querele dell’Anicav, l’associazione dei conservieri, lasciano il tempo che trovano. E se questo accade è perché c’è una crepa nella normativa che non vieta di usare concentrato importato e rivenderlo come Made in Italy. Quale lobby impedisce che la legge venga corretta come da anni chiedono le organizzazioni dei produttori? Perché il ministero non interviene con rapidità su un tema che è al centro dell’attenzione della stampa specializzata di tutto il mondo? Di fatto dalla Cina siamo noi che importiamo 155mila tonnellate di concentrato e ne esportiamo il 75%. Un business pazzesco nel quale l’agricoltura non c’entra nulla. Ma anche un boomerang perché il rischio è che si ripeta quanto accaduto per il made in Italy nella moda: invece di salvaguardare territorio e artigianalità, le aziende, ormai in mano a ragionieri che si distinguono per i tagli e non per gli investimenti, lavorano nei paesi dell’est fidando sul fatto che poi basta apporre l’etichetta Made in Italy per vendere bene. Così in America adesso fanno affari coloro che garantiscono che tutto, prodotto e manodopera, sia rigorosamente marchiato Usa. Nulla vieta di pensare che prima o poi accada anche con il pomodoro. Ecco perché bisogna sostenere i trasformatori seri e gli artigiani che garantiscono la qualità. Non a caso sono proprio gli industriali senza scrupoli i primi nemici dei marchi di tutela perché preferiscono portare avanti il brand della propria azienda. Il punto è che le fabbriche si possono trasferire in ogni parte del mondo, il territorio no. Eterna dialettica tra agricoltura e pastorizia, ragione e istinto, progresso e conservazione. In questo marasma produttivo che riguarda la vita di migliaia di famiglie al momento non resta che affidarsi ai controlli e all’alta qualità di alcuni artigiani che, proprio grazie alla loro reputazione sostenuta dalle dop e dai presìdi Slow Food, anche nel periodo più nero della Terra dei Fuochi, non hanno subito contraccolpi. Restiamo in attesa che qualcuno cancelli la falla della norma sul concentrato. La Cina è vicina si diceva negli anni ’70. Oggi possiamo dire: la Cina siamo noi.
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