«Casal di Principe, la camorra
​ancora qui e don Diana è stato tradito»

«Casal di Principe, la camorra ancora qui e don Diana è stato tradito»
di Marilù Musto
Martedì 28 Dicembre 2021, 07:55 - Ultimo agg. 16:56
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«Sono spartiti i camorristi, ma la mentalità di molta gente di questo posto non è cambiata. Ora la camorra è come una sposa. Se San Francesco aveva sposato la povertà, qui la criminalità è una donna alla continua ricerca di mariti». È un quadro genuino della periferia casertana, quello che dipinge don Carlo Aversano, uno dei sacerdoti di Casal di Principe che firmò il documento voluto da don Giuseppe Diana «Per amore del mio popolo», atto di accusa contro la camorra in un periodo in cui la resistenza al clan dei Casalesi partiva dalle parrocchie. Il documento scritto da don Diana (ucciso dal clan) ha compiuto trent'anni. All'epoca fu letto nelle parrocchie di don Peppe, don Carlo e di don Armando Broccoletti. E don Carlo (che di don Diana era il miglior amico, assieme ad Augusto di Meo) ha voluto che quella lettera domenica scorsa fosse letta di nuovo nella foranìa di Casal di Principe.

Ma cosa è cambiato dopo trent'anni?
«Il cambiamento lo sto ancora aspettando.

Ci sono stati arresti, gli ergastoli, ma alcune persone ancora oggi vengono da me e raccontano disperate che il nipote sta prendendo una brutta strada. Vuol dire che non c'è stato un tempo pedagogico. Lo Stato non ha investito nella pars construens. A volte penso che questa gente sia fatta proprio così».

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Qualcuno ha nostalgia della camorra?
«Non è nostalgia, è mentalità. Come diceva San Paolo, mi è stata messa una spina nella carne. La mia spina nel fianco è la criminalità organizzata che non vuole lasciare questa terra. Confido nel Signore che mi dice: ti basta la mia forza».

Se lo Stato non ha pensato alle nuove generazioni, chi lo ha fatto?
«Nessuno. Solo le parrocchie. Io ho portato in campeggio i figli di Schiavone, Sandokan, anche mettendomi in cattiva luce con i don Abbondio che mi additavano, ma non facevano niente per migliorare quei ragazzi. Ricordo che il figlio di Walter Schiavone, Nicola, che morì in un incidente stradale a 16 anni, l'ultima volta che gli parlai mi disse: perché devo morire così presto? Io non voglio. Capiva che il tessuto in cui viveva non era sano».

Chi ha criticato il suo lavoro?
«In molti. Io ho sempre seguito l'insegnamento di Gesù che condannava le azioni, non gli uomini. Gesù mi dice di amare i nemici, ma non certo ciò che fanno».

Questa carenza della presenza dello Stato, qui, si traduce in una situazione che lascia al nemico tutte le superiorità. Cosa resta del documento di Don Diana?
«Molti non lo hanno mai letto, però lo hanno criticato. Tanti altri lo hanno strumentalizzato. Non è giusto, qui dentro c'è tanto amore. Era un invito al camorrista a convertirsi, ma anche alle persone comuni a reagire».
Vuol dire che non è giusto che il nome di don Diana sia diventato un marchio?
«Hanno fatto un vestito a modo loro su questo documento, ci hanno costruito addosso delle cose che dentro non c'erano. Qui dentro c'è solo amore. Noi ai camorristi non dicevamo: devi morire, ma cambia vita».

Cosa ricorda di quel periodo?
«Oltre ai momenti trascorsi con la gente, con gli scout, i giorni con don Peppe sicuramente. Eravamo giovani, pensavamo che l'arrivo degli scout qui potesse cambiare le cose anche se all'inizio avevamo tante perplessità, pensavamo qui sono tutti contadini e la gente ci chiedeva ma chi sono questi scout?, poi Peppe ha avuto ragione».

Un aneddoto con protagonista un camorrista?
«Uno, fra tutti. Un giorno Francesco Schiavone Sandokan mi fermò e mi disse di voler finanziare i lavori della facciata della chiesa del Santissimo Salvatore, la mia chiesa, io per farlo desistere risposi che sarebbe costato troppo e che non era alla sua portata, mi rispose: io posso fare tutto. Alzai lo sguardo e gli dissi: eppure pensavo che Gesù Cristo potesse far tutto, non tu. Da allora non lo vidi più».

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